Alcune placchette connesse a consuetudini religiose rurali antiche
di Alessandro Ubertazzi
Vengono qui presentati due distinti gruppi di placchette che costituiscono un contributo conoscitivo allo studio sul loro significato e sulle loro finalità [Figure 1 e 2].

Figura 1. Placchetta della serie Sant’Antonio abate (tipo A), bronzo fuso a cera persa con appiccagnolo fuso assieme, retro incuso, mm. 59,7 x 85, gr. 44,4, bottega non identificata dell’Italia settentrionale (area veneta?), fine XVI – inizio XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1.165.

Figura 2. Placchetta della serie Madonna di Rapallo, bronzo fuso a cera persa, retro incuso, mm. 103 x 136, gr. 289,34, bottega non identificata, Liguria, fine del XVI-inizio del XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1. 563.
Con tutta evidenza, esse non sono necessariamente improntate a una esplicita ricerca formale; in altri termini, esse non perseguono le finalità estetiche che normalmente sono espresse dalle placchette maggiormente studiate e commentate, con riferimento al loro contesto culturale.
Taluni esemplari di questi rilievi possono infatti apparire relativamente ingenui e persino rozzi, come è stato giustamente osservato da Pietro Cannata (Cannata 1982 pp. 77-78 n. 80).
In realtà, i diversi esemplari qui messi a confronto consentono di cogliere facilmente le diversità e le coincidenze nelle diverse varianti esistenti; se, da un lato, esse testimoniano il favore da loro incontrato, dall’altro, esse consentono di percepire l’evoluzione del modello nel tempo e presso le diverse fonderie che le hanno prodotte, come è spesso accaduto per la gran parte dei rilievi antichi.
Placchette di Sant’Antionio abate
Cominciamo con le placchette che riportano l’effige di Sant’Antonio abate.
Nato a Qumans (Coma) in Egitto il 2 gennaio 251 e morto (a 105 anni) il 17 gennaio 356, Sant’Antonio abate è detto appunto anche “d’Egitto”; all’inizio della sua lunga e complessa esistenza, Antonio è stato per molti anni un anacoreta per cui viene detto anche “del deserto”: secondo la tradizione, in questo ambiente egli subì le mitiche tentazioni del maligno con il fuoco, per cui esso è anche detto “del fuoco”. Antonio è stato un famoso predicatore ed è considerato il fondatore del monachesimo cristiano per cui viene altresì chiamato “il grande”.
E’ curioso notare come, ancora oggi nel linguaggio comune, l’herpes zoster viene detto “fuoco di Sant’Antonio” o “fiamme di Satana” non solo per ricordare le tentazioni subite dal monaco da parte del diavolo (e vinte), quanto per ricordare che quel fervente taumaturgo aveva insegnato ai suoi confratelli come combattere e guarire il dolorosissimo virus somministrando fegato del maiale ai malati che gli chiedevano aiuto: curiosamente la medicina odierna combatte il “fuoco di Sant’Antonio” con i principi attivi che sono contenuti nel fegato del simpatico suino.
Grazie a una curiosa estensione della fama derivante dalla vittoria sui demoni e dalle guarigioni effettuate, la tradizione popolare considera Antonio come il protettore degli animali domestici nonché, per ulteriore estensione, dei prodotti dell’agricoltura: a Sant’Antonio sono infatti associate le rituali benedizioni degli animali. Il Santo è comunque protettore degli allevatori, dei macellai, dei norcini e dei salumieri.
Indipendentemente dalla loro tipologia, tutti gli esemplari qui raffigurati rappresentano il Santo in piedi, avvolto in un saio completo di cappuccio. Dietro di lui, sul lato sinistro, spunta la testa di un maiale mentre, sul lato destro, arde un fuoco vivace.
Nella versione A, il cappuccio del monaco forma una sorta di ventaglio da cui parte l’attaccaglia e dietro alla composizione, un po’ naïve, è rappresentata una vasta raggiera [Figure 3 e 4, vedi ancora Figura 1].


Figura 3. Sant’Antonio abate (tipo A), bronzo fuso a cera persa con appiccagnolo fuso assieme, retro incuso, mm. 56,5 x 84,2, gr. 51,58, bottega non identificata dell’Italia settentrionale (area veneta?), fine XVI – inizio XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1.166.


Figura 4. Sant’Antonio abate (tipo A), bronzo fuso a cera persa con appiccagnolo fuso assieme, ma mancante, retro incuso, mm. 56,2 x 74,9, gr. 48,55, bottega non identificata dell’Italia settentrionale (area veneta?), fine XVI – inizio XVII secolo, collezione dell’autore inv. P1.167 (Ubertazzi 1993, p. 180).
Nella versione B lo sfondo è invece costituito da una sorta di scudo, entro cui si ripete la stessa scena di Sant’Antonio con il porcello e le fiamme [Figure 5, 6, 7 e 8].


Figura 5. Sant’Antonio abate (tipo B), bronzo fuso a cera persa senza appiccagnolo, retro incuso, mm. 50,6 x 78,2, gr. 53,13, bottega non identificata dell’Italia settentrionale (area veneta?), fine XVI – inizio XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1.169.


Figura 6. Sant’Antonio abate (tipo B), bronzo fuso a cera persa con appiccagnolo fuso insieme, retro incuso, mm. 46,2 x 85,5, gr. 49,74, bottega non identificata dell’Italia settentrionale (area veneta?), fine XVI – inizio XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1.170.


Figura 7. Sant’Antonio abate (tipo B), bronzo fuso a cera persa, con appiccagnolo fuso insieme, retro incuso, mm. 44,6 x 83,9, gr. 43,10, bottega non identificata dell’Italia settentrionale (area veneta?), fine XVI – inizio XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1.171.


Figura 8. Sant’Antonio abate (tipo B), bronzo fuso a cera persa con appiccagnolo fuso insieme, retro incuso, mm. 45,3 x 84,9, gr. 52,38, bottega non identificata dell’Italia settentrionale (area veneta?), fine XVI – inizio XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1.172.
La versione C presenta, invece, il Santo entro uno sfondo circolare contornato da una cornice perlinata; in questo tipo, sia superiormente che ai piedi di Sant’Antonio, sono rappresentati due cherubini [Figura 9].


Figura 9. Sant’Antonio abate (tipo C), bronzo fuso a cera persa con appiccagnolo fuso insieme, ma mancante, retro incuso, mm. 58,2 x 82,5, gr. 43,61, bottega non identificata dell’Italia settentrionale (area veneta?), fine XVI – inizio XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1.168 (Ubertazzi 1993, p. 180).
A proposito di queste placchette di indole apotropaica, i commentatori e i critici hanno espresso curiose ipotesi peraltro poco legate alla suddetta identità storica e leggendaria del Santo frate anacoreta.
Middeldorf sostiene, ad esempio, che esse potessero essere «insegne da pellegrino» ovviamente da indossare grazie alle asole che esse presentano.
Pietro Cannata, per contro, così riflette: “… Il culto assai diffuso del santo eremita, protettore anche degli animali, permette di avanzare altre ipotesi sulla destinazione della placchetta dalla forma insolita terminante con due attaccaglie. Il rilievo potrebbe essere stato destinato a pendere, quale emblema d’ordine, da un cingolo; oppure, per devozione, da un finimento (né può meravigliare questo uso considerando che all’annuale benedizione degli animali presso la chiesa di S. Eusebio all’Esquilino in occasione della festa del santo, secondo un’antica tradizione, anche il papa inviava i cavalli dei palazzi apostolici) …” (Cannata, op. cit.)
In realtà, i due appiccagnoli, che molte delle placchette in questione presentano tutt’ora, ci consentono di ricordare la curiosa consuetudine che era stata introdotta dai monaci successori di Antonio nel tardo Medioevo. Grazie all’appiccagnolo superiore, attorno al collo di alcuni maiali veniva applicata una cinta dalla quale pendeva l’effige del Santo monaco; agganciata al foro inferiore era invece sospesa una campanella. Questi animali, così identificati e segnalati alla popolazione, erano liberi di grufolare lungo le fangose strade di molte città dell’Italia del Nord-Est: una volta adeguatamente cresciuti, essi erano destinati a nutrire i più poveri.
Mentre una delle varianti del tipo B è stata originariamente realizzata senza l’appiccagnolo superiore, entro il quale far passare la cinta (vedi ancora Figura 5), alcuni esemplari delle altre varianti possono essere giunti a noi privi di quell’asola: verosimilmente essi l’hanno perduta in seguito al prolungato uso.
Placchette della Madonna di Rapallo
Le placchette in questione, anch’esse di esplicita valenza apotropaica e di sapore rurale, rappresentano, entro una forma a “goccia”, l’apparizione della Madonna a un contadino di nome Chichizola a Rapallo il 2 luglio 1557.
La Madonna in piedi, incoronata e sontuosamente vestita, porta il Bambino col braccio destro mentre con la mano sinistra sembra indicare qualcosa a Chichizola inginocchiato; dietro alla Vergine si nota un’ampia raggera che si staglia sulle nuvole mentre quattro cherubini (due per lato) volteggiano in cielo; Chichizola inginocchiato reca fra le mani un curioso strumento agricolo (una falce?) mentre davanti a lui, per terra, giace un falcetto; sullo sfondo della composizione è rappresentato un rigoglioso bosco di latifoglie raggiera [Figure 10 e 11, vedi ancora Figura 2].


Figura 10. Placchetta della serie Madonna di Rapallo, bronzo fuso a cera persa, retro incuso, mm. 97,7 x 113,48, gr. 234,76, bottega non identificata, Liguria, fine del XVI-inizio del XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1. 178.


Figura 11. Placchetta della serie Madonna di Rapallo, bronzo fuso a cera persa, retro incuso, mm. 102,2 x 137,2, gr. 211,76, bottega non identificata, Liguria, fine del XVI-inizio del XVII secolo, inedita, collezione dell’autore inv. P1. 179.
La finezza dei volti, la nitidezza dei tratti occorsi per la rappresentazione degli alberi, le zolle del terreno e le nubi in cielo dell’esemplare di Figura 2, sono tutti aspetti che concorrono a identificare questa placchetta come esemplare “capostipite”; la placchetta di Figura 10 è del tutto analoga alla precedente, ma è stata ottenuta da una cera lievemente più stanca; la placchetta di Figura 11 appare ancora più stanca: al contadino Chichizola è stata perfino levata la falce che, invece, brandisce negli altri due esemplari.
Questi rilievi di provenienza ligure avevano certamente un uso rurale, come d’altro canto le citate placchette di cultura veneta dedicate a Sant’Antonio abate anche se, rispetto a quelle, sembrano meno specialistiche.
Essi potevano, ad esempio, pendere sulla fronte di un cavallo o di un bue, con funzione propiziatoria o antinfortunistica ovvero come strumento di abbellimento nelle occasioni di festa, analogamente a quanto accade con campane e campanacci per le vacche e per i buoi in occasione di concorsi di “bellezza” o per le feste della transumanza.
La fenditura nella parte alta si presta a passarvi una correggia con cui collegarla agli altri finimenti dell’animale.
Ad ogni modo, anche la comparazione delle tre placchette ispirate alla leggendaria vicenda del contadino ligure, costituisce una ennesima occasione per riflettere sull’interessante ricorrenza di varianti e di variazioni rispetto a un esemplare capostipite oltre che sulla sussistenza di molteplici botteghe che hanno ripreso e perfino modificato il modello inziale.
Bibliografia citata
-P. Cannata, Rilievi e placchette dal XV al XVIII secolo, De Luca, Roma 1982.
-A. Ubertazzi, Parole al bersaglio; elzeviri, editoriali, flash e pamphlets (collana di saggi di cultura progettuale per la iniziativa editoriale Il Pomerio), Lodigraf, Lodi 1993.
Maggio 2025
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