I primati di Francesco Mochi genio della scultura

della Redazione di Antiqua

Pochi immaginano di doversi recare a Orvieto per vedere “la prima statua compiutamente barocca che appaia in Italia e nel mondo” oppure a Piacenza per due bassorilievi considerati “… tra le più belle sculture di tutto il Seicento”. Le opere sono di Francesco Mochi e il giudizio è stato espresso da Vincenzo Golzio in un volume intitolato Seicento e Settecento, pubblicato a Torino da Utet nel lontano 1950 (nota 1).
La statua di cui si parla all’inizio è un Angelo [Figura 1], facente parte di un gruppo dell’Annunciazione, commissionata al Mochi dall’Opera del Duomo di Orvieto su raccomandazione di Mario Farnese (nota 2).

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Figura 1. Mochi F., Angelo annunciante, marmo, Orvieto, Museo dell’Opera.

L’angelo è firmato e datato 1605, mentre la Madonna, altrettanto magnifica, è del 1609 ed entrambi si trovano ora al Museo dell’Opera di Orvieto.
Sempre citando il Golzio, la “… ricerca del movimento, la gentilezza delle forme fanno di quest’opera di Orvieto un unicum nella scultura italiana di questo periodo”.
A parte un influsso generale esercitato dalla scultura ellenistica, come opere di riferimento dell’Angelo vengono menzionati il Mercurio di Giambologna (Dami op. Cit.) e il Genio della Vittoria di Michelangelo, confronti che in entrambe i casi non convincono del tutto (nota 3).
I due bassorilievi si trovano alla base della statua equestre di Alessandro Farnese che si trova a Piacenza in piazza cavalli accanto a quella di Ranuccio Farnese, entrambe eseguire da Francesco Mochi, ancora una volta raccomandato da Mario Farnese e dal cardinale Odorado Farnese.
La statua di Ranuccio [Figura 2] fu inauguarata nel 1620 e rivela la conoscenza dell’antico, in particolare del monumento di Marc’Aurelio che si trova a Roma in Campidoglio.
Dopo averne terminato il bozzetto, il Mochi si recò a Padova e a Venezia per ammirarvi i celebri monumenti equestri del Colleoni di Donatello e del Gattamelata di Verrocchio e fece tesoro di questa esperienza nel realizzare la statua di Alessandro che è di poco successiva [Figura 3].

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Figura 2. Mochi F., Monumento a Ranuccio Farnese, bronzo,
Piacenza, piazza cavalli.

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Figura 3. Mochi F., Monumento ad Alessandro Farnese, bronzo,
Piacenza, piazza cavalli.

Mentre la prima risente ancora della cultura tardocinquecentesca, il monumento ad Alessandro è pienamente barocco come rivela “… l’esagerato sviluppo della criniera e della coda, irrazionalmente accresciute e movimentate a scopo non di rappresentazione della realtà, ma soltanto per raggiungere un effetto decorativo, pittoresco e animato. Anche il cavallo è pi vivace nei muscoli pronti a scattare; a mala pena trattenuto dal cavaliere, si slancia in avanti alzando con decisione la zampa sinistra”.
Ma torniamo ai bassorilievi, il primo dei quali raffigura il ponte fatto costruire da Alessandro Farnese sulla Schelda nelle Fiandre [Figura 4].
Il secondo rappresenta l’incontro di Alessandro Farnese con gli ambasciatori della regina Elisabetta I nella pianura tra Ostenda e Newport [Figura 5].

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Figura 4. Mochi F., Monumento ad Alessandro Farnese (particolare), bronzo, Piacenza, piazza cavalli.

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Figura 5. Mochi F., Monumento ad Alessandro Farnese (particolare), bronzo, Piacenza, piazza cavalli.

Si nota in entrambi una straordinaria capacità di rendere la profondità del paesaggio attraverso una sequenza di piani realizzati con un bassissimo rilievo, ottenendo un effetto pittorico che ricorda i grandi paesaggisti olandesi.
Tornato a Roma nel 1629 Francesco Mochi esegue altri due capolavori.
Il primo è un San Giovanni Battista che gli viene ordinato da papa Urbano VIII per la cappella che aveva fatto costruire, quando era ancora cardinale, in S. Andrea della Valle [Figura 6].

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Figura 6. Mochi F., San Giovanni Battista, marmo, Dresda, Hofkirche.

Il santo non viene rapprentato, come d’uso, nell’atto di battezzare Gesù o di predicare, bensì in una posizione insolita, seduto e intento a discorrere con degli interlocutori invisibili. Altrettanto isolita è la gestualità, con mani aperte e dita quasi rattrappite; qualcuno l’ha interpretata come la postura di uno che sta discutendo animatamente enumerando i concetti che sta via via esponendo.
La statua non piaque e non fu mai collocata nella cappella; attualmente si trova nella Hofkirche di Dresda.
Il secondo capolavoro romano è una Veronica sempre commissionata nel 1629 da Urbano VIII, questa volta però da collocare in una delle nicchie dei piloni che reggono la cupola di San Pietro, circostanza avvenuta nel 1640 [Figura 7]. Si vuole che essa sia derivata da una figura dipinta da Santi di Tito nell’affresco della pazzia di Nabucodonosor nei Musei Vaticani [Figura 8], come pure vi sia una dipendenza, anche se il paragone appare meno appropriato, dalla Niobe degli Uffizi.

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Figura 7. Mochi F., Veronica, marmo, Città del Vaticano, San Pietro.

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Figura 8. Santi di Tito, La pazzia di Nabucodonosor, affresco, Città del Vaticano, Museo gregoriano etrusco.

La scultura sembra investita da una corrente d’aria che non solo fa svolazzare le vesti, ma anche il telo con impresso il volto di Gesù che la santa tiene con le mani. Questa impostazione non solo rispecchia la genialità e il virtuosismo tecnico dell’esecutore, ma risponde anche all’esigenza di riempire l’ampio vano della nicchia. Gli autori delle statue destinate alle altre nicchie utilizzano altri espedienti: Gianlorenzo Bernini fa allargare a dismisura le braccia al suo Longino che regge la lancia, Andrea Bolgi riempie lo spazio con la Croce retta da Sant’Elena e lo stesso fa Francois de Quesnoy con la croce del martirio di Sant’Andrea.

NOTE

[1] In realtà Golzio riporta il parere che L. Dami formula nell’articolo Filippo Mochi pubblicato in Dedalo, V, 1924, pp. 99-123.
Il testo di Golzio è molto chiaro. Si muove tra critica d’arte, enciclopedia (notizie su autori e loro opere) ed erudizione (molte citazioni da testi letterari) e può essere molto utile per chi si avvicina allo studio dell’arte barocca. Lo si può trovare in molte bibliotece d’arte, ma con un po’ di fortuna e poca spesa anche nel mercato dell’usato.

[2] Sulla vita e sulle opere di Francesco Mochi vedi:
https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Mochi
http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-mochi_(Dizionario-Biografico)/

[3] Golzi fa notare “che l’Angelo deriva da un affresco di Federico Zuccari in Santa Maria Nuova a Firenze”, a sua volta ispirato a un dipinto del Veronese. Pensiamo si tratti di una svista poiché non risultano affreschi di Zuccari in Santa Maria Nuova. Presumbilmente l’autore si riferiva all’Angelo [Figura] dipinto all’interno del Giudizio Universale nella cupola di Santa Maria del Fiore, dove Zuccari completa l’opera del Vasari, che effettivamente, come sostiene Golzi, può ricordare l’Angelo annunciante di Paolo Veronese, sia nella versione degli Uffizi, sia di quella delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.

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Figura. Giorgio Vasari-Federico Zuccari, Il Giudizio Universale (particolare), Firenze, Santa Maria del Fiore.

Prima pubblicazione: Antiqua.mi, maggio 2020

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