La decorazione militare come simbolo di virtus civile: il De re militari di Valturio a Verona tra Quattro e Cinquecento

di Alessandra Zamperini

Negli ultimi due decenni del Quattrocento il recupero dell’arte antica portò alla diffusione di un particolare tipo di ornato, tratto dal campo militare, generalmente dispiegato su archi, frontoni, lesene e plinti.
Per giustificare il fenomeno, può essere utile ricordare che insiemi di armi (detti anche panoplie o armilustri) potevano essere studiati con facilità: tra i reperti più noti, vanno ricordati il basamento della colonna Traiana e alcuni frammenti, probabilmente provenienti da un tempio di Marte, che erano stati trasportati presso Santa Sabina a Roma (e di lì giunsero agli Uffizi nel corso del XVI secolo).
Tuttavia, il dato più interessante di questo argomento consiste nell’appurare se tali ornati avessero un valore puramente decorativo o se, in taluni casi, potessero godere di un valore simbolico.
A tal fine, la situazione veronese risulta utile per approfondire il tema e, come primo banco di prova, può essere presa in esame la decorazione della Loggia del Consiglio di Verona, sede del governo cittadino, innalzata dal 1476 al 1492.
Inutile dire che l’ornato di questo edificio – vista la sua funzione – era finalizzato alla celebrazione del buon governo. Ed è altrettanto evidente che sulla base di tale premessa vanno interpretati alcuni motivi ornamentali di tema militare (armature, trofei e immagini sacrificali), scolpiti sulla balconata del piano terra.
Come interpretarle?
Per avere un aiuto, può essere opportuno rifarsi a un’opera letteraria che godette di notevole prestigio a Verona.
Nel 1472, nella città atesina veniva stampato quello che va considerato un vero e proprio successo editoriale dell’epoca: si trattava del De re militari, scritto nel 1460 da Roberto Valturio, segretario di Sigismondo Malatesta (nota 1).
Il testo, uno dei primi realizzati dopo l’introduzione della stampa in città nel 1471, suscitò notevole interesse, accresciuto, come ricordava con orgoglio lo stampatore Giovanni di Nicola
, anche dalla bellezza dell’edizione.

Per tornare alla Loggia del Consiglio di Verona, può essere stimolante analizzare in che misura il De re militari offra una chiave di lettura per la decorazione lapidea della balaustra.
Il tono militare era pertinente a un edificio pubblico destinato al Consiglio della città, dal momento che l’invenzione dell’attività guerriera era ritenuta necessaria per la protezione e l’organizzazione di una comunità civile. A conferma bastava leggere quanto scritto da Valturio: “Ne deriva che questa attività militare, nata e generata sulla base di principi onestissimi per procurare, secondo natura, vantaggi alla vita dei gruppi associati sulla base del diritto, e delle compagini umane che i nostri uomini chiamano città, risulti concessa e affidata agli uomini per salvaguardia e vantaggio»; e ancora: «La pratica militare è una parte civile e una degnissima facoltà, assolutamente fondamentale secondo natura, per governare, proteggendole, le altre parti del potere civile” (Valturio 1472, pp. 9, 11).
Si può andare oltre, analizzando i singoli motivi scolpiti. Per qualcuno di essi, a dire il vero, la chiave di lettura è del tutto piana. L’armatura è collegabile all’imperium, traducibile, in senso civile, nel governo della città; per la saetta alata [Figura 1] va tenuto presente un sesterzio di Antonino Pio in cui questa immagine è accompagnata dalle parole Providentia Deorum [Figura 2]: la ripresa in questo caso intendeva evidenziare la garanzia di benessere che doveva giungere dal governo alla comunità; benessere al quale era da associare la lastra con l’inequivocabile scritta Pax [Figura 3].

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Figura 1. Saetta, Verona, Loggia del Consiglio, balaustra.

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Figura 2. Sesterzio di Antonino Pio.

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Figura 3. Pax, Verona, Loggia del Consiglio, balaustra.

Tuttavia, in altri casi, per interpretare le immagini si può far ricorso alla lettura di Valturio.
Le lastre della Loggia del Consiglio, infatti, includono due are sacrificali (sulle quali compaiono degli agnelli), un caduceo contornato da due cornucopie e quattro fasci littori.
Sul sacrificio in generale, quale momento solenne di invocazione e di ringraziamento per il buon esito dell’impresa, Valturio offre molte notizie: che si tratti di sacrificare delle hostiae (qualora l’evento avvenga prima della battaglia contro gli hostes) o delle victimae (qualora la cerimonia avvenga dopo la victoria), le etimologie che egli propone rimandano al campo guerresco, e in particolare al buon esito dello scontro; ma soprattutto, merita ricordare che, secondo queste interpretazioni, dall’offerta degli ovini sarebbe derivata l’ovatio, ovvero la sanzione del successo bellico mediante la partecipazione corale del popolo al sacrificio di ringraziamento sovrinteso dal generale vittorioso, che in tal modo si faceva garante di felicità per la sua gente (Valturio 1472, pp. 280, 481).
Per il caduceo [Figura 4] il nesso era ugualmente da porre con l’ottima gestione politica: “Il caduceo è segno di pace”; in quanto attributo di Mercurio, era collegato alla capacità benefica dell’eloquenza: “Grazie alle parole, i belligeranti si placano; la guerra cessa e si ricompone” (Valturio 1472, p. 223).

Parimenti, i fasci [Figura 5], in quanto prerogativa del potere civile dei consoli, “sono armi del diritto, non del furore, e predisposte contro i malvagi in modo tale che li trattenga il terrore più di quanto li consumi la pena: di fatto, questo è un rispetto civile più che bellico” (Valturio 1472, p. 230). Le cornucopie non facevano che rinforzare tale accezione positiva, come confermano numerosi esempi ricavabili dalla medaglistica quattrocentesca. Basta osservare il verso di una medaglia eseguita da Cristoforo di Geremia (1468): vi è raffigurato l’imperatore Costantino, in atto di reggere il caduceo, mentre stringe la mano di una figura femminile, a sua volta intenta a sostenere una cornucopia; lungo il margine, corre un’iscrizione (Concordia Augusti), che lascia intendere come i due simboli congiunti si propongano di alludere alla pace e alla prosperità.

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Figura 4. Caduceo e cornucopie, Verona, Loggia Del Consiglio, balaustra.

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Figura 5. Fasci, Verona, Loggia del Consiglio, balaustra.

Quello che però garantiva la congruità del tema militare nel dichiarare la bontà di un’amministrazione era la sua associazione con il concetto di virtus, come ricordava ancora Valturio, secondo il quale al comando militare correttamente esercitato erano indispensabili, oltre alla fortuna, “perizia, valore, ingegno, carattere, forze”.
Per una sorta di proprietà transitiva, allora, se il governante poteva essere assimilato al generale (in base a quel rapporto tra arte militare e cura civile messo in luce nelle righe precedenti), il valore (ovvero la virtus) del soldato diveniva anche la qualità perspicua del politico.
Tant’è che il significato di tali figurazioni, se lette come programma per la classe dirigente, diveniva più limpido: per gli ottimati veronesi, la militia costituiva un simbolo della gestione pubblica in quanto specchio della virtus, sicché dall’attività politica dovevano scaturire la pace, la prosperità e un equo ordine sociale.

D’altro canto, è da evidenziare che, secondo il pensiero quattrocentesco, ove fosse la virtus, lì sarebbe stata anche la nobilitas: “É vera nobiltà quella che scaturisce dalla conoscenza, dal valore e dai buoni costumi”. La citazione viene dal Tractatulus seu quaestio utrum preferendus sit doctor an miles, pubblicato nel 1497 dal veronese Cristoforo Lafranchini.
Di per sé l’argomento si inseriva in una consolidata letteratura umanistica volta a stabilire il valore e i termini di riconoscibilità della vera nobiltà, che, secondo molti, risiedeva essenzialmente nelle doti personali e non nel privilegio della nascita o del titolo. Da parte sua, Lafranchini polemizzava contro i milites, che identificava nei nobili per stirpe o in quelli nobilitati per ricchezza.
Contrapposto al miles, che sovente si faceva forte del titolo per esercitare le vili arti della mercatura, si ergeva il doctor, istruito nelle arti liberali e negli studi degni di un uomo civile, pronto al sacrificio per la sua patria. Tuttavia – e in questo punto Lafranchini formulava un abilissimo compromesso diplomatico – esisteva una possibilità di risarcimento: il prestigio del titolo non era perso quando i milites si fossero davvero occupati delle armi e fossero stati pronti alla difesa dello Stato. Non per nulla, l’etimologia stessa del nome miles ne richiamava la funzione utilitaria, poiché poteva essere fatta discendere sia dal fatto che Romolo aveva originariamente scelto «mille pugnatores» per la tutela della sua città, sia dal fatto che militia evocasse, per assonanza, il male che i soldati sono soliti tenere a bada.
In tono con tutto questo, Lafranchini concludeva che la militia avrebbe riconquistato tutto il suo merito nel caso in cui fosse stata espressione di quella virtus che si concretizzava nello studio delle lettere e nella cura dello Stato. D’altro canto, nelle premesse quanto nelle conclusioni, questo non era un dibattito prettamente veronese; anzi, a voler ampliare gli orizzonti, non mancavano le fonti con le quali sostenere che il servizio alla patria dovesse essere condensato, giusta una famosa endiadi ciceroniana ripresa anche da Petrarca, nella vita civile e nell’attività militare.
Quanto a Verona, seppure il trattato di Lafranchini fosse stato stampato alla fine del secolo, è del tutto lecito aspettarsi che quelle opinioni fossero note e discusse da tempo, tanto più che l’uomo era stato coinvolto nella costruzione della Loggia del Consiglio a partire dal 1482.
In tale quadro, dunque, la ripresa di temi militari nell’arredo dell’edificio doveva essere vista come proposta di un riconoscimento etico e sociale per quella parte dell’aristocrazia veramente “nobile”, la cui azione si fosse virtuosamente premurata di provvedere al benessere della comunità.
Che, infine, l’equivalenza militia-virtus fosse argomento di particolare risalto nei partiti ornamentali a tema militare è comprovato dall’impiego di iconografie guerresche anche nelle commissioni private, specialmente nei portali, per comprendere i quali può essere proficuo estendere i messaggi di Valturio e Lafranchini.
Non occorre ricordare l’alto valore rappresentativo degli ingressi, che venivano a racchiudere il pregio della residenza e della famiglia che la abitava. In un contesto fortemente influenzato dal recupero delle immagini classiche, la struttura architettonica che pareva condensare ed esaltare un significato solenne era costituita dall’arco trionfale, al quale il portale era spontaneamente assimilato: prova ne sia la scritta ripartita su due tabulae dell’archivolto di palazzo Da Monte (stradone Maffei 2), dove si legge Arcus / Qualis [Figure 6 e 7].

Della funzione dell’arco in generale e delle sue ricadute nel panorama veronese si è già parlato. Ma era ancora una volta Valturio a confermare l’immagine, affermando che il trionfo romano avveniva “solo attraverso la porta trionfale” (Valturio 1472, p. 477).

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Figura 6. Arco con l’iscrizione Arcus, Verona, Palazzo Da Monte.

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Figura 7. Arco con l’iscrizione Qualis, Verona, Palazzo Da Monte.

Di fatto, il modello dell’arco fu utilizzato per rendere più maestoso l’ingresso di alcune dimore, come avvenne in palazzo Confalonieri (via Quattro Spade 2), ove il portale era ispirato all’arco di Augusto a Rimini: al pari del monumento romano, nei mistilinei del portale erano inseriti due tondi, uno raffigurante un profilo femminile, ispirato all’immagine di Livia, l’altro, in realtà, solo genericamente tratto dal repertorio romano, perché di fatto, nella scelta di elaborare l’elmo secondo un gusto contemporaneo, trovava piuttosto riscontro in alcuni disegni coevi, come ad esempio nel famosissimo profilo di condottiero eseguito da Leonardo Da Vinci.
In seguito, si fece strada l’idea di tradurre più puntualmente le descrizioni degli archi trionfali tramandate dalle fonti, secondo una scelta che evidentemente avvenne in conformità con i modelli offerti dalla letteratura, come comprovava ancora una volta Valturio: “Gli antichi chiamano ‘trofeo’ un ceppo o un tronco di quercia di montagna, lavorato a foggia di uomo vinto e ricoperto per così dire delle sue spoglie e delle sue armi. Ciascuna spoglia, così attaccata, pendeva secondo grandissimo decoro e ornamento, e ciò era affisso soltanto nei luoghi più visibili. Per questo, dice Crispo che Pompeo, dopo aver vinto gli Ispani, fece innalzare dei trofei nei Pirenei. Usanza questa da cui venne che i trofei erano appesi su archi costruiti nelle città” (Valturio 1472, p. 470) (nota 2).
Una spiegazione per questo ornato concerne la possibilità di trovare una corrispondenza fra il tema decorativo e la professione dei proprietari dei palazzi. Ma la risposta è sostanzialmente negativa, perché l’equivalenza è confermata solo in un numero ristretto di casi. Può valere per il palazzo dei Da Monte, famiglia i cui legami con l’esercito veneziano sono accertati per più di una generazione. Inoltre, poiché la residenza aveva ospitato uomini notoriamente dediti all’attività guerresca, come il Gattamelata e i condottieri Dal Verme, è plausibile che i Da Monte, con quell’arco, avessero inteso sottolineare in maniera paradigmatica una sorta di prestigiosa discendenza morale che ne accreditava tanto la nobilitas quanto la virtus.

Ma negli altri casi – che sono la maggioranza e talora con manifestazioni tra le più significative – tale equazione non sussiste.
Ne consegue, allora, che una motivazione di tale gusto può essere cercata nella conformazione del tessuto sociale della città e nei valori che ne scaturirono. Nel corso del XV secolo, nella classe ottimizia veronese erano venute emergendo nuove famiglie, le quali, raggiunta la nobiltà grazie alle ricchezze accumulate (fondiarie e mercantili) o alle cariche ricoperte, finirono per affiancarsi alle casate di origine feudale o scaligera. Al vertice della società, dunque, vecchi e nuovi nobili si contendevano il prestigio di un titolo che doveva essere ribadito o legittimato: coerentemente, l’immagine militare, per il forte attributo nobilitante che le era connesso attraverso il rimando alla virtus, poteva facilmente essere utilizzata quale manifesto per supportare una posizione sociale elitaria.
Sotto tali condizioni, pertanto, la sintesi di tutte queste aspirazioni poteva essere soddisfatta facendo dell’ingresso una sorta di arco celebrativo mediante il ricorso a strutture ornamentali militaresche. D’altronde, non si dimentichi che era l’arco stesso a consacrare pubblicamente la virtus del vincitore: “Vediamo che sono eretti e consacrati alla posterità statue dei defunti in abiti militari, obelischi, colonne e piramidi e archi trionfali (Valturio 1472, pp. 402-403).
A questo giovavano anche le iscrizioni che spesso affiorano nelle tabulae scolpite sulle paraste dei portali. Ad esempio, a palazzo Da Monte [Figure 8 e 9] si leggono, ciascuna per lato, le parole Laetitiae e Paci; a palazzo Ravignani (via Duomo 1) compare l’esortazione Pax huic domui; a palazzo Paletta Da Pré (Stradone Arcidiacono Pacifico 6) si trova, ripartita in due tabelle, l’espressione Fausto Fato. Indubbiamente, è palese il rimando a concetti che richiamano sia la necessità della virtus nell’antagonismo con la sorte (Fausto Fato), sia gli effetti discendenti dalla buona amministrazione (Laetitiae , Paci).

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Figura 8. Tabula con iscrizione Laetitiae, Verona, Palazzo Da Monte.

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Figura 9. Tabula con iscrizione Paci, Verona, Palazzo Da Monte.

Ma un’allusione ancora più diretta ai testi di Valturio e di Lafranchini può essere letta nelle parole scritte sull’ingresso del palazzo di Virgilio Zavarise (via Cattaneo 6) [Figura 10, 11 e 12].

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Figura 10. Portale, Verona, Palazzo Zavarise.

Sulle tabulae, accanto agli elementi marziali, si trovano le sintomatiche parole Virtuti Victrici; sull’archivolto, un’iscrizione recita Istas Vergilius struxit Zavarisius aedes 1506 Haec patet hospitibus janua tota probis. Già il richiamo alla virtus e alla victoria è eloquente delle interrelazioni con il lessico militare, tanto da trovare riscontro, ancora una volta, in Valturio: “Si dice ‘vittoria’ perché la vittoria è raggiunta proprio con la virtù: infatti, la vittoria ottenuta con l’inganno è turpe per gli antichi” (Valturio 1472, p. 288).

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Figura 11. Tabula con iscrizione Virtuti, Verona, Palazzo Zavarise.

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Figura 12. Tabula con iscrizione Victrici, Verona, Palazzo Zavarise.

Tuttavia, è il seguito del messaggio a completare la conciliazione con le aspirazioni umanistiche proposte da Lafranchini: la porta sarebbe stata aperta a tutti coloro che fossero stati onesti, ovvero – secondo l’interpretazione deducibile dalla Quaestio – meritevoli per conoscenza, virtù e buoni costumi. Qualora si consideri che la fama di un uomo come Virgilio Zavarise era basata sulla sua professione di notaio e sulla sua attività letteraria, appare inevitabile leggere l’orgogliosa affermazione come una sorta di riconoscimento in favore dell’azione “nobilitante” della virtus personale.
Non diversamente, la lettura dei singoli elementi contribuisce a comporre un messaggio celebrativo. Giavellotti, celate, scudi, armature, pelte, aste, bullae apotropaiche con il volto di Medusa erano disposti sulle lesene, come accadeva sui tronchi innalzati nei trionfi. Ma, ancora una volta, non veniva meno la moralizzazione del repertorio. Le aste erano un opportuno riconoscimento alla virtus: “Gli antichi ricevevano in dono anche delle falere e delle aste […] infatti, l’asta era l’emblema delle armi e del potere, ragion per cui era donata agli uomini valorosi” (Valturio 1472, p. 477). Anche la bulla, «pendendo dal petto e avendo in sé quei rimedi che si riteneva aiutassero in sommo grado contro le fitte dell’ira e i morsi dell’invidia» (Valturio 1472, p. 474), era assegnata ob virtutem.
Ovviamente, sebbene l’iconografia di palazzo Zavarise esaurisca la quasi totalità dei casi veronesi (e non solo), possono esistere alcune varianti, che tuttavia, ugualmente, autorizzano a ricercarne una spiegazione nel De re militari.
Così, per il cespo di quercia scolpito nei palazzi Da Lisca (via Cattaneo 6) e Da Monte, Valturio poteva offrire ancora una spiegazione. Si trattava di una pianta che, simbolo di fertilità e vitalità, diventava emblema della virtus del generale vittorioso: “Pertanto, le corone civiche formate dalle querce sono un riconoscimento famosissimo della virtus dei soldati”. Ma poteva indicare pure la virtus impiegata nelle cariche civili, poiché la quercia era altresì sacra a Giove, “sotto la cui tutela sono poste le comunità civiche” (Valturio 1472, p. 484).
Quanto alle esortazioni alla pace e alla letizia, si trattava di concetti interrelati, per una sorta di concordia discors, all’argomento guerresco, in funzione anche di una moralizzazione di quest’ultimo. Nella mentalità umanistica, la tranquillità e la serenità di uno Stato – e metaforicamente di una casa – erano gli effetti auspicabili di un’opportuna condotta militare: «Si vis pacem, para bellum» era la frase che doveva condensare questo pensiero, poiché la guerra era giudicata – lo si è visto nelle etimologie proposte da Valturio e Lafranchini per il termine militia – quale strumento necessario per domare i nemici e allontanare i pericoli.
Insomma, era la virtus a diventare fondamento ineludibile per l’equivalenza simbolica (ma non necessariamente professionale) della militia e della nobiltà, e, in quanto tale, a permettere che l’utilizzo di immagini militari potesse trasformarsi soprattutto in un comodo e aggiornato referente alle esigenze dell’etica “moderna”.

NOTE

[1] Le citazioni saranno tratte da R. Valturio, De re militari, Venezia 1472, BCVr, inc. 1084.

[2] Anche altri elementi, all’apparenza slegati dal contesto militare, rivelano una stretta consonanza filologica con il tema trionfale. Ad esempio, i mascheroni che talvolta compaiono in questo tipo di ornato derivavano da un patrimonio dionisiaco transitato nel contesto militare: «Autore del primo trionfo riteniamo Dioniso, che in latino è chiamato padre Libero»: Valturio 1472, p. 471.

Prima pubblicazione: Antiqua.mi, giugno 2013

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