Lacca e “arte povera” nell’ebanisteria lombarda

di Anna Dellinavelli

La Lombardia non vanta una tradizione di mobili laccati, contrariamente a Venezia, che nel corso del XVIII secolo riuscì a sviluppare un’attitudine all’arte della lacca.
Durante il Settecento a Venezia erano infatti attive numerose botteghe di abili “depentori” che furono i primi in Italia a sperimentare una tecnica in grado di imitare le lacche orientali le quali, risultando di difficile reperibilità, vennero sostituite dai veneziani con la sandracca, una resina estratta da una conifera del Nord Africa. La fama di queste botteghe era ben nota e si diffuse nei paesi europei grazie anche ai numerosi visitatori stranieri che esportarono i vari oggetti laccati acquistati durante i loro soggiorni nella città lagunare.
La fortuna dei manufatti veneziani, unita alla poca conoscenza del settore, fece nascere, agli inizi del Novecento, la consuetudine di attribuire sistematicamente alle lacche italiane una provenienza veneziana (con qualche concessione a quelle genovesi, torinesi ed anche siciliane).
In proposito, Giuseppe Morazzoni, nella prima metà del secolo (che fu il primo a compilare una classificazione, se pur semplificata, dei numerosi arredi dell’Italia settentrionale) relegò quelli laccati all’ambito veneziano. Le sue osservazioni (condivise, peraltro, da altri storici contemporanei) sono state rivisitate negli anni a seguire grazie a nuovi elementi emersi da studi più approfonditi effettuati su esemplari reperiti sul mercato o in collezioni private.
Fra questi studi va menzionato il lavoro svolto da Ludovico Caumont Caimi che è riuscito a catalogare un corpus di mobili laccati lombardi del Settecento (nota 1).
Oltre a restituirne la giusta collocazione, l’autore individua le caratteristiche riscontrabili nella lacca prodotta in Lombardia la quale, a differenza di quella veneziana e genovese, prediligeva figure di grandi proporzioni la cui fonte iconografica andrebbe riscontrata nell’arte giapponese del periodo Edo (1603-1868) e nella lacca detta “Namban” prodotta per il mercato occidentale.
L’importanza che assume il cassettone a ribalta con alzata [Figure 1 e 1bis], dipinto con soggetti esotici e laccato, risiede nell’essere l’unico esemplare lombardo firmato e datato (sul lato destro della cimasa).

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Figure 1 e 1 bis. Luigi Fratini, cassettone a ribalta con alzata, Lombardia 1751, Sotheby,s Milano, giugno 2006, lotto n. 322.

Dell’artigiano che nel 1751 lo firma, Luigi Fratini, ad oggi non si sono acquisite notizie utili.
Va detto che, in generale, i mobili italiani laccati – a parte rari esemplari tra cui un cassettone a ribalta veneziano firmato Vizzo (nota 2) – risultano opera di maestranze anonime.
L’elemento essenziale che ricollega il nostro mobile all’area lombarda va rintracciato nella struttura piuttosto che nel decoro. La sagoma della cimasa, le due spalle poste ai lati della calatoia, le lesene scantonate, i piedi a “balaustro”, i sei cassettini presenti all’interno della ribalta: si tratta di elementi che si ripetono, quasi sistematicamente, su analoghi arredi con impiallacciatura in radica di noce messa in risalto dalle cornicette nere che, in questo caso sono dorate.
Punti di contatto col nostro mobile sono riconoscibili nel doppio corpo a fondo rosso [Figura 2] e più nello specifico nel fronte leggermente mosso con tre cassetti, il movimento della cimasa, l’incorniciatura degli specchi, i piedi a “balaustro”.

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Figura 2. Cassettone a ribalta con alzata, Lombardia, metà circa del XVIII secolo (la foto è in L. Caumont Caimi, op. cit., p. 345).

Il doppio corpo del Fratini, quindi, costituisce un punto di riferimento fondamentale per l’attribuzione e la datazione di arredi laccati simili per forma e decorazione, conservati in collezioni private e non ancora transitati sul mercato antiquario.
Nel deposito del Museo delle Arti Applicate del Castello Sforzesco, è conservato il cassettone a ribalta con alzata realizzato con la tecnica definita “arte povera”, dipinto e laccato [Figure 3 e 3 bis].

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Figure 3 e 3 bis. Cassettone a ribalta con alzata, Lombardia, metà circa del XVIII secolo, Milano, Castello Sforzesco, Museo delle Arti Applicate (depositi).

La lacca contrafacta (o “arte povera”) è stata una prerogativa quasi esclusiva di Venezia, con qualche eccezione per il Piemonte. La tecnica si rese necessaria per una semplificazione del lavoro dei “depentori” che richiedeva tempi lunghi e per contenere gli alti costi che comportavano la decorazione e la laccatura di un mobile. Ebbe una larga diffusione nella seconda metà del Settecento, affiancata a quella della lacca senza però sostituirla.
La lavorazione consisteva nell’uso di figurine tratte da incisioni che venivano ritagliate, colorate, applicate sulla superficie interessata del mobile e, infine, completate con parti dipinte. Nella fase successiva, si ripassavano varie mani di sandracca che, oltre a dare lucentezza, preservava dai danni dell’usura e, pur attenuandone i contorni, li lasciava tuttavia sensibili al tatto rendendo così riconoscibile tale procedimento. L’effetto finale si avvicinava molto a quello degli oggetti dipinti e laccati col risultato di un lavoro più rapido e un costo inferiore. In Francia la tecnica, chiamata découpage, era in uso dal 1720.
Per le ragioni analoghe agli oggetti laccati, anche per quelli in ”arte povera” ci fu un’attribuzione agli artigiani lagunari. Fu ancora il Morazzoni, che alla metà degli anni Cinquanta, pubblicò l’esemplare di cui alla figura 4 nel volume degli arredi veneziani (nota 3).
Della stessa opinione furono altri storici che negli ultimi decenni del Novecento si interessarono all’esemplare del Castello.
Una corretta collocazione al nostro mobile è stata data da Elena Villani (nota 4), che negli anni Ottanta del Novecento ebbe la possibilità di analizzarlo in maniera approfondita riscontrando nella struttura e nei vari elementi un’assonanza con l’ebanisteria lombarda.
In particolare, sono riconoscibili la sagoma della cimasa, le lesene sugli spigoli scantonati, l’incorniciatura degli specchi, l’uso di cornicette (che qui sono tinte in blu), le cerniere lanceolate che reggono l’anta della calatoia: elementi che rispondono, in linea di massima, alla tipologia dell’ebanisteria lombarda. Una considerazione, inoltre, va fatta per la struttura. Il mobile, infatti, risulta molto curato nelle varie fasi di costruzione, dimostrando come gli artigiani lombardi prestassero più attenzione alla consistenza e alla resistenza dell’arredo, mentre i veneziani prediligevano l’estetica e la decorazione. Per di più, è un sistema lombardo l’utilizzo di legni diversi per la costruzione dello scafo, in questo caso il pioppo, l’abete e il noce. Venezia, come di consuetudine, avrebbe utilizzato l’abete.
Le figure che ricoprono l’intera superficie del mobile, sono affiancate in una disarmonica disposizione senza un filo conduttore: a scene galanti tratte da Watteau, Lancret e Pater si affiancano soggetti indiani e tedeschi con ornamenti architettonici e naturalistici tratti dalle incisioni dei fratelli Remondini (nota 5). Non compaiono soggetti a chinoiserie.
Se da un lato il nostro mobile rientra nell’ambito di una produzione standard dell’ebanisteria lombarda, dall’altro se ne distacca per l’esuberanza dei motivi decorativi; le catene dipinte che separano i cassetti; il castello composto da vari cassettini che incorniciano un’anta centrale (generalmente quello lombardo è più essenziale); le due tavolette estraibili reggi candele poste sotto gli specchi (poco comuni in Lombardia e più frequenti in Veneto) e lo scarabattolo con quattro cassetti centrati da un’anta scorrevole e quattro cassetti più piccoli ai lati che nascondono spazi segreti (più frequenti sei cassettini simili posti su due file orizzontali) (nota 6).
Considerando gli elementi delle cornicette nere (qui blu) che fecero la loro comparsa sui mobili lombardi non prima degli anni Quaranta, delle molte figurine presenti che riproducono abiti di foggia in voga nella prima metà del secolo e della lieve mossa del fronte che prelude al movimento del Rococò, si può determinare una datazione attendibile alla metà del XVIII secolo (nota 7).

NOTE

[1] L.Caumont Caimi, I mobili laccati del Settecento in Lombardia, Po, Quaderni di cultura padana, 2000, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, Franco Maria Ricci, n. 10.

[2] Cfr. Sotheby’s, marzo 1999, lotto n. 93.

[3] G. Morazzoni, Mobili veneziani laccati, Edizioni Luigi Alfieri, Milano, tav. XL.

[4] E. Villani, Rassegna di studi e di notizie, vol. XIII, Castello Sforzesco, 1986.

[5] I Remondini furono una famiglia di stampatori che operarono a Bassano del Grappa dalla metà del XVII secolo. La loro impresa ebbe inizio con un avviato lanificio a Bassano parallelamente, nel 1657, aprirono un’attività calcografica. Rimasero attivi fino al 1864, anno in cui è datato l’ultimo catalogo di incisioni (il primo di cui si ha notizia risale al 1772). Si avvalsero anche di incisioni prodotte in Francia e Germania. A metà del Settecento vennero definiti i più grandi tipografi e produttori di calcografia in Europa. Furono attestati dall’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert.

[6] Elena Villani ipotizza che il committente si fosse rivolto ad artigiani lombardi per la realizzazione della struttura del mobile e che successivamente lo abbia inviato a Venezia affinché i “depentori” provvedessero alla decorazione ed alla laccatura; op cit. p. 742.

[7] Nel corso del Novecento il mobile ha subito interventi di conservazione e di consolidamento, in particolare per la decorazione e qualche restauro per la parte strutturale. Non risultano documentazioni che riguardino restauri ottocenteschi. E’ probabile che qualche intervento si sia reso necessario per la decorazione e la laccatura, più soggette all’usura


Prima pubblicazione: Antiqua.mi, dicembre 2016

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