Un documento del 1516 per Ambrogio Montevecchia e il monumento funebre di Battista Bagarotti. Giustizia e pietà per Andrea Fusina

di Vito Zani

Devo a una generosa segnalazione la conoscenza del documento inedito qui presentato (nota 1), che permette di fare piena luce sull’autore del monumento funebre di Battista Bagarotti vescovo di Bobbio, ossia di quell’imponente e ben noto complesso scultoreo recante la data 1519, originariamente nella chiesa di S. Maria della Pace a Milano e ora al Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco della stessa città (nota 2).
Il documento è una scrittura notarile, rogata il 26 febbraio 1516 nella casa milanese del vescovo, sita nella parrocchia di S. Stefano in Nosiggia, che vide coinvolti come parti in causa lo stesso Bagarotti e lo scultore Ambrogio Montevecchia, in merito ai lavori per il detto monumento funebre.

ambrogio-montevecchia-monumento-funebre-battista-bagarotti-milano-castello-sforzesco

Ambrogio Montevecchia, Monumento funebre di Battista Bagarotti, Milano, Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco (Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco – ©Comune di Milano/Manusardi 2014).

Nel testo si fa riferimento a patti stipulati in precedenza tra i due contraenti presso un notaio milanese purtroppo imprecisato, come pure la data della stipula. Patti che, con ogni probabilità dovevano costituire l’originale contratto di commissione, non rintracciato, e che, secondo quanto riportato, prevedevano la fornitura allo scultore da parte del vescovo delle pietre necessarie per realizzare il monumento.
In virtù di tale accordo, Montevecchia lamentava ora, dopo ripetuti reclami, la mancata consegna di parte del materiale, il che gli impediva di portare avanti il lavoro. Dichiarava infatti di avere già compiuto alcuni pezzi del monumento (non è precisato quali né quanti), e che questi, depositati presso la propria abitazione milanese, rischiavano di essere danneggiati o dispersi ad opera di francesi e altri stranieri circolanti in città, nel qual caso egli avrebbe preteso di venire risarcito dal committente. Richiamando così il vescovo agli impegni sottoscritti a suo tempo, Montevecchia lo sollecitava a consegnare i rimanenti marmi necessari quanto prima, al massimo entro un mese, trascorso il quale si sarebbe riservato la facoltà di vendere quelli già lavorati.
Poiché, in buona sostanza, l’atto serviva a tutelare gli interessi di Montevecchia, mettendo in chiaro la sua posizione in merito all’anomalo svolgimento dei lavori, pare ovvio che l’istanza di questa nuova stipula provenisse da lui, fondamentalmente per due motivi.
Anche se non conosciamo l’originario contratto di commissione, esso doveva prevedere – come di regola – precise sanzioni per l’artista nel caso di inadempienza, cosicché il Montevecchia si vedeva costretto a cautelarsi nell’eventualità di non poter rispettare i concordati tempi di consegna a causa della mancata fornitura dei marmi, di cui per l’appunto non era responsabile. Ma soprattutto, sempre alla luce dei medesimi standard contrattuali – che prescrivevano il pagamento del saldo alla consegna dell’opera finita – lo scultore doveva essere preoccupato dalla prospettiva di non poter riscuotere ciò che normalmente veniva quantificato nella metà o in un terzo circa del compenso complessivo.
Compenso che, vista la mole dell’apparato scultoreo, doveva essere piuttosto interessante anche a fronte dell’accordo (del tutto atipico nel caso di opere commissionate da privati) che poneva la fornitura dei marmi e le relative ingenti spese a carico del committente e non dello scultore (nota 3), il quale veniva così sollevato da un’incombenza suscettibile di fargli fruttare un margine di guadagno ulteriore tramite un ricarico sui costi del materiale.
Nonostante la stipula del febbraio 1516, a distanza di quasi un anno il vescovo Bagarotti non aveva ancora completato le consegne dei marmi, come risulta dalla delibera della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano dell’8 gennaio 1517, tramite la quale gli veniva concesso un blocco di marmo di Candoglia “per poter condurre a termine il suo monumento, che si sta costruendo in s. Maria della Pace in Milano” (nota 4).
In quella chiesa, evidentemente, dovevano essere stati nel frattempo trasferiti i pezzi già lavorati, che il documento dell’anno prima diceva ancora giacenti nella casa di Ambrogio Montevecchia.
L’apparato venne infine compiuto e posto in opera, verosimilmente nel 1519, come si desume dalla data sulla targa rilevata al centro del sarcofago.
L’autore del monumento, attribuito per oltre un secolo ad Andrea Fusina, è dunque il ben più debole Ambrogio Montevecchia, come già era stato proposto dallo scrivente nel 1999 su basi puramente stilistiche, in un articolo dedicato a questo maestro (nota 5).
Già allora, i riscontri con le sue opere certe apparivano talmente palmari da tradurre visivamente con la stessa chiarezza ciò che ora ritroviamo messo per iscritto dall’autore, tramite un notaio.
Le forme in sé, le modeste qualità tecniche e compositive, le goffe figurazioni e il ritardo culturale di questo apparato marmoreo, del resto, avevano reso altrettanto evidente l’abisso che corre tra il suo artefice e un maestro di notevole livello quale Andrea Fusina, come era stato ampiamente argomentato, oltre che illustrato per immagini.

Almeno così era sembrato, dal momento che l’opera è stata di nuovo attribuita ad Andrea Fusina in un intervento presentato nel 2018 a un convegno internazionale sulla scultura lombarda tra il 1395 e il 1535, i cui atti sono ancora freschi di stampa (nota 6).
Il saggio, firmato da Beatrice Bolandrini, è il primo a carattere monografico su Andrea Fusina, e si affianca alle voci biografiche che gli sono state dedicate – di genere più compilativo che critico – tra cui quella del 1998 di Maria Cristina Loi per il Dizionario Biografico degli Italiani, che avremo occasione di menzionare più volte (nota 7).
È il caso di soffermarsi su questo nuovo saggio innanzitutto per alcuni fondamentali chiarimenti, che si impongono fin dalle prime battute del testo, dove si parla delle origini famigliari di Andrea Fusina (nota 8).
Al proposito, ricordo che la notizia della discendenza dell’artista dalla stessa famiglia di Bonino da Campione, già acquisita nel XIX secolo, ricordata fino agli inizi del Novecento e poi del tutto dimenticata per il resto del secolo, era stata fatta presente dal sottoscritto nel 1999 (nota 9). Ne avevo dato conto per l’appunto nell’articolo su Ambrogio Montevecchia, citando le Memorie del Calvi (1859), che rimandano direttamente alla prima fonte della notizia, cioè il libro del 1821 di Gaetano Franchetti, Storia e Descrizione del Duomo di Milano. Così riferiva Franchetti in un passo su Bonino da Campione, a favore del quale erano emerse da un libro contabile della Fabbrica del Duomo di Milano le registrazioni di alcuni compensi a lui corrisposti nel 1393: “ivi pure si raccoglie che Bonino apparteneva alla famiglia chiamata Fusina, celebre nella storia del nostro Duomo per varj artefici che gli fornì in diverse epoche, fra i quali si distingue lo scultore ed architetto Andrea da Fusina” (nota 10).
L’importante annotazione finale veniva però riportata da Franchetti esclusivamente in questo brano su Bonino, e omessa invece in tutti quelli su Andrea Fusina (nota 11). Cosicché, dopo esser stata sporadicamente e disordinatamente raccolta durante l’Ottocento (come dal divulgativo Malvezzi ne I Maestri Comacini, del 1893, che citava Andrea Fusina come imparentato ad altri con lo stesso cognome, senza nominare Bonino), la notizia di questa illustre discendenza sparì completamente dalla letteratura artistica per quasi tutto il secolo seguente. E, sebbene il libro di Franchetti sia un’autentica pietra miliare nella storiografia della cattedrale milanese, la notizia era sfuggita perfino a un puntiglioso conoscitore e indagatore delle fonti a stampa come Giovanni Agosti (che nel 1990 trattò diffusamente di questo notevole esponente del classicismo lombardo) (nota 12), così come all’approfondita sintesi biografica della citata voce dedicata al Fusina nel 1998 sul Dizionario Biografico degli Italiani.
Questa era la situazione quando accennai alla cosa nel 1999, e mi limitai ad un accenno in nota proprio perché in un articolo non su Andrea Fusina, bensì su Ambrogio Montevecchia, fermo restando che il Calvi da me citato reca il preciso rimando alla prima fonte del Franchetti, come detto.
Un chiarimento su questo sofferto decorso storiografico era dunque auspicabile nel primo saggio monografico su Andrea Fusina, che invece, senza far parola del mio contributo e attingendo direttamente ai testi ottocenteschi, rigira le carte in tutt’altro modo sulla scoperta, l’oblio e la riscoperta dell’appartenenza famigliare dell’artista:

“Incerto è anche il suo luogo natio: secondo Giovio originario di Berbenno in Valtellina, ipotesi riportata da Loi 1, milanese per Lomazzo e Orlandi 2, a mio avviso l’ipotesi più plausibile è quella che lo ritiene campionese 3, coetaneo di Cristoforo Solari, figlio di Baldassare 4, discendente della dinastia di quel Giacomo/Jacopo, attivo sia in Duomo a Milano, sia nella Certosa di Pavia. Del resto anche il celebre Bonino da Campione apparteneva alla grande famiglia dei Fusina, il che lascia sottendere senza troppi misteri la discendenza da questo ceppo 5 cui appartengono numerosi scultori e lapicidi di intere generazioni” (nota 13).

È inevitabile che una simile formulazione si presti a facili malintesi, con quel “a mio avviso” e i rimandi in nota direttamente ai testi ottocenteschi; il tentativo è anche di far passare come ipotesi bisognosa di conferma ciò che Franchetti dava per scontato già duecento anni fa e che oggi risulta scontato anche a noi per gli stessi motivi.
Peccato – ma dubito sia un caso – che Franchetti venga citato da Bolandrini solo per aver riesumato il cognome di Bonino, senza alcun cenno al fatto che avesse invece affermato a chiare lettere la discendenza di Andrea dalla famiglia del celebre campionese.
Più che un’ipotesi da discutere, c’era semmai un preciso dato storiografico da registrare, purtroppo sacrificato in favore di una rendicontazione che facesse apparire decisivo e autorevole il pronunciamento dell’autrice (favorevole anche alle “ipotesi” secondo cui Cristoforo Solari sarebbe stato coetaneo di Andrea Fusina e il padre di quest’ultimo avrebbe avuto per nome Baldassarre).
Era necessario puntualizzare tutto ciò, sia per porre in chiaro che non è merito di Bolandrini la riscoperta di questa importante discendenza artistica, sia per rimediare ad alcuni equivoci della sua ricostruzione, improntata a tutt’altro che a dar conto in modo lineare di quei delicati passaggi storiografici – fondamentali nella vicenda critica dell’artista -, avendo omesso la parte fondamentale del primo (1821) e cassato in toto l’ultimo (1999) (nota 14).
Il passo esaminato è in realtà un buon biglietto da visita del livello di scientificità di questo lavoro, e qualche indizio al riguardo mi pare si scorga già dal titolo, nella duplice designazione dell’artista come “eccellente scultore e magister lapicida”, che ripete in due lingue lo stesso concetto.
Ma, senza sottilizzare su questioni così particolari, mi preme piuttosto illustrare i motivi che mi fanno ravvisare nel saggio gravi carenze interne ai presupposti fondamentali per affrontare temi anche meno complessi di quello prescelto.
Al brano appena esaminato, ne segue uno con accenni sulla vicenda critica dell’artista, che, poco prima di saltare a piè pari dal 1787 al Novecento, reca un’annotazione molto fantasiosa su cosa e come la guida seicentesca di Carlo Torre, Il Ritratto di Milano (nota 15), riferisse di Andrea Fusina e delle sue opere:

“… dando ampia considerazione allo scultore, a cui attribuisce anche la statua raffigurante la Maddalena con un vaso in mano posta sulla facciata del Duomo milanese10, alcuni rilievi conservati nella Cappella della Madonna dell’Albero11, e soprattutto il monumento a Bagarotti, di cui tesse le lodi12” (nota 16).

Oltre al fatto che l’attribuzione della Maddalena risale a un secolo prima, Torre non pronunciò mai alcuna attribuzione sul monumento Bagarotti, né gli dedicò reali apprezzamenti artistici, limitandosi a un referto più che altro descrittivo: “un tumulo di marmo fino sostenuto da vaghe colonne” e “un così vistoso Mausoleo”, evidentemente da riferirsi anche – se non soltanto – all’imponenza dell’apparato (nota 17). Infine, neppure ne trattò alla pagina indicata da Bolandrini, dove Torre si soffermava invece su un capolavoro firmato di Fusina, il monumento Birago in S. Maria della Passione, spendendo ben altre parole per elogiare sia l’opera che l’artefice, “il cui nome ritrovasi nel suo piedistallo, e dice, Andrea Fusina opus 1495” (nota 18).
Dopodiché, nelle pagine seguenti del saggio, Bolandrini restituisce le citazioni dal Ritratto del Torre ai loro rispettivi oggetti reali, appurando come “Torre non faccia riferimento alcuno all’autore” del monumento Bagarotti, e, addirittura, che la prima attribuzione a Fusina risale al 1872 ed è di Giuseppe Mongeri (nota 19).
Difficile riuscire a spiegarsi le ragioni di un simile strafalcione (nota 20). Ma non ne vale nemmeno la pena, una volta preso atto di come l’immaginaria notazione su Torre nelle battute introduttive del saggio anticipi al lettore la falsa notizia che già nel Seicento circolasse l’idea che Andrea Fusina sia l’autore del monumento Bagarotti, cosa di cui l’autrice è assai fermamente convinta (nota 21). Al punto che la sottrazione di quest’opera dal suo catalogo le fa lanciare l’allarme per cui l’artista “oggi rischia di rimanere senza opere attribuite” (nota 22).
E, forse per scongiurare l’emergenza, evita di far parola dei riscontri stilistici illustrati a suo tempo con le opere di Montevecchia, così come della circostanza che costui fosse già stato al servizio del vescovo Bagarotti per due imprese scultoree alquanto rilevanti (nota 23).

Vediamo però quali sono gli argomenti dell’autrice a sostegno dell’estraneità tra Montevecchia e il monumento: “Non reputo sostenibile l’attribuzione a Montevecchia per diversi motivi. Ad oggi le uniche opere documentate sono quelle piacentine. Dopo quarantadue anni di attività con esiti molto modesti, come riscontrabile nei Profeti che a loro volta condividono con la Maria Addolorata del Duomo di Piacenza una secchezza inequivocabile, viene pensionato il 28 gennaio 1518 dalla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Come possiamo pensare che ad un anziano scultore ormai a riposo si affidasse un’opera di rappresentanza tanto impegnativa?” (nota 24).
Sorvolando sui preliminari appunti biografico-artistici, del tutto estranei al problema dell’attribuzione, questa è infatti negata al Montevecchia dalla sola circostanza del suo pensionamento dal Duomo, sebbene, come Bolandrini ricorda, il monumento risultasse in lavorazione nel gennaio del 1517 e ci è ignota la data della commissione (nota 25).
Strano però che, avendo fissato in due anni “i tempi medi di esecuzione” di una singola statua (nota 26), la studiosa non si pronunci invece quelli di un monumento così imponente.
Mandato in pensione Montevecchia, Bolandrini cerca di far rientrare Fusina nel monumento Bagarotti, sforzandosi di trovarvi qualche riscontro figurativo con la sua produzione.
Viene così a identificare “una sua personale cifra stilistica, ossia il lenzuolo su cui è deposto il defunto, che si fa più morbido e simmetrico nel debordare dall’esile lettino”, rispetto a quello dell’autografo monumento Birago (nota 27). Ci si chiede però come mai non siano state poste a confronto figurazioni più significative del lenzuolo, come ad esempio i putti, che sono presenti in entrambi i complessi scultorei, e che hanno evidentemente poco/niente a che fare gli uni con gli altri, come era stato fatto notare a suo tempo (nota 28).
E infatti a Bolandrini non sfugge che “certamente vi sono delle sostanziali divergenze” tra i monumenti Birago e Bagarotti, “ma dobbiamo considerare che sono trascorsi quasi vent’anni, nel corso dei quali Fusina ha rivestito incarichi di prestigio all’interno della Veneranda Fabbrica e non solo, ha svolto un viaggio documentato a Roma e a Loreto. Ricordiamo inoltre il vuoto temporale in Duomo tra il 1512 e il 1525, in cui sarà sicuramente stato impegnato su altri fronti” (nota 29).
Tutto interessantissimo, ma cosa c’entra? Cosa c’entra, anche qui, l’enunciazione di circostanze biografiche con l’esame formale delle opere? A rigore, volendo dare un senso compiuto a queste succedanee divagazioni, si prospetterebbe per Fusina una maturazione artistica di cui il monumento Bagarotti non può certo dirsi all’altezza.
Si cerca allora di enfatizzare forzatamente la qualità e l’importanza di un’opera impossibilitata ad esprimerle da sé, innanzitutto inventandosi che “riscuote clamore” presso i contemporanei, poi facendo passare il ritratto funebre del giacente Bagarotti per una “premessa ineludibile agli esiti felici di Bambaia”, e perfino trasformando l’anacronistica struttura del monumento in qualcosa di ben diverso da un limite culturale (nota 30).
A suo tempo, evidenziai infatti come dato saliente di questo complesso scultoreo anche l’arretratezza dell’impianto, riconducibile a quello delle arche medievali, e ne indicai nell’arca pavese di San Lanfranco di Giovanni Antonio Amadeo il modello a cui appare ispirato (nota 31). Secondo Bolandrini, “quella che Zani definisce arretratezza compositiva nell’impostare l’opera su sei colonne, a mio avviso è da interpretare come un omaggio intenzionale al passato” (nota 32). Sarebbe stato interessante conoscerne il motivo, essendo l’arretratezza un’evidenza di fatto, mentre l’intenzionalità non è che una congettura tutta da dimostrare.
Purtroppo, nessun chiarimento in proposito viene fornito dal percorso di confronti delineato, con esempi che vedono “l’utilizzo delle colonne, come sostegno e sostanza”, tra cui i monumenti funebri Della Torre e Brivio dei Cazzaniga-Briosco, dove “le colonne sono quattro e sono realizzate entro il 1485-1486”.
Proprio il numero delle colonne promuove come esempio più consono “l’arca di San Lanfranco a Pavia di Giovanni Antonio Amadeo, dove le colonne sono sei”.
Il confronto tra l’arca pavese e il monumento Bagarotti viene così illustrato per la prima volta anche tramite immagini, senza informare che gli studi avevano già evidenziato la relazione tra le due opere, il cui rilevamento viene dunque implicitamente presentato come una personale acquisizione dell’autrice.

Il saggio offre altri esempi di questo particolare modo di affrontare i problemi di autografia, dei nessi tra le opere e della loro storia critica; tuttavia, quanto già visto dovrebbe abbondantemente bastare.
È invece il caso di soffermarsi su un’altra questione affrontata nel saggio, quella della documentazione sull’artista, che qui viene significativamente ampliata grazie a diversi inediti dell’archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano (nota 33).
Si tratta di documenti utili principalmente a definire meglio i tempi dell’operatività di Fusina in Duomo, essendo costituiti per lo più da registrazioni del salario e di pagamenti con causali non specificate, o specificate non a sufficienza per poter risalire alle opere cui sono riferiti (nota 34).
I primi datano all’ottobre 1495, il che, come giustamente rileva Bolandrini, anticipa per l’artista “l’ingresso in Duomo di almeno un paio d’anni rispetto alla data del 22 giugno 1497 riportata negli Annali”, cioè nel volume pubblicato nel 1880 (nota 35). Lo stesso anticipo all’ottobre 1495 era stato registrato nel 1998 dalla voce biografica dedicata a Fusina da Maria Cristina Loi, col rimando a documenti ripresi da un’allora recente tesi di laurea, alcuni dei quali citati da Loi con la segnatura (nota 36).
Noto che nel saggio di Bolandrini non vi è alcun cenno alle segnalazioni di Loi, né è mai nominata la tesi da cui provengono. Ma soprattutto – e questo è il vero problema – neppure le segnature riportate da Loi figurano tra quelle, assai più numerose, raccolte nell’odierno saggio (nota 37).
Così, mentre la ‘novità’ dell’ingresso di Fusina in Duomo nel 1495 viene misurata confrontandosi con gli Annali del 1880, senza fare i conti con la bibliografia più recente, nel contempo si riportano stralci di un documento dello stesso cantiere, di assoluta importanza nella carriera dell’artista (17 luglio 1525: “Electus fuit magister Andreas de Fusina in ingeniarium et sculptorem praefatae fabricae […], et hoc attenta sufficientia ipsius magistri Andreae, longa experientia, optimaque peritia in architectura et sculptura”), citandone in nota esclusivamente la segnatura archivistica, benché proprio gli Annali ne avessero pubblicato la trascrizione già nel 1880 (nota 38).
Anche nell’accennare alla documentata formazione di Fusina presso Amadeo, iniziata nel 1486, vengono citati in nota gli estremi archivistici dell’atto notarile di apprendistato e la voce biografica di Loi del 1998 (che riporta la notizia dell’alunnato senza rimandi bibliografici né documentari), mentre non si fa parola dell’integrale trascrizione del documento resa a stampa nel 1989, da dove però dovrebbero provenire gli estremi archivistici, non altrimenti noti, se non sbaglio (nota 39).
Nel saggio, infine, non sono menzionati due documenti assai importanti per la ricostruzione della carriera dell’artista, pubblicati nel 2018 da Francesco Repishti. L’uno, del 7 agosto 1503, gli attesta un compenso per il modello della Porta verso Compedo nella cattedrale milanese; l’altro, del 2 marzo 1514, vede Fusina a Roma come testimone a un contratto di vendita di una vigna da parte di Cristoforo Solari, ovviamente presente all’atto, rogato nella casa di Caradosso Foppa (nota 40).
Pertanto, a me pare del tutto fuori luogo affermare che dai nuovi documenti del Duomo presentati nel saggio “emergono le maggiori novità sulla personalità di questo artista”, come viene in sostanza ribadito dall’autrice anche più avanti nel testo, ancor più a sproposito (nota 41).
Ritengo che si sarebbe fatto un miglior servizio agli studi e alla conoscenza dell’artista mettendo ordine, per quanto possibile, nella documentazione che lo riguarda, almeno operando un ‘ricongiungimento’ di quella del duomo milanese, mettendo insieme cioè le aggiunte a quanto era già noto.
Per lo meno, andavano riportate le prime menzioni bibliografiche e le trascrizioni di documenti già conosciuti, anziché rimandare solo alla segnatura archivistica, come fossero primizie.
I documenti non sono solo testimonianze storiche: una volta noti, assumono il valore di dati storiografici che da quel determinato momento entrano a far parte di un determinato processo di ricostruzione critica. Riordinarli significa non soltanto porli in sequenza cronologica, ma anche inserirli correttamente all’interno dello sviluppo degli studi, e non solo per evitare il rischio di depistare gli studi successivi.
Anche qui, insomma, si ripropone quella tendenza a combinare una scarsa linearità dell’esposizione ad un’esagerata autopromozione, con la quale abbiamo già avuto modo di fare conoscenza.

Tirando le somme, quali dovrebbero essere i meriti di questo saggio?
A mio parere, a parte l’aggiunta di qualche nuovo documento del Duomo, ben maggiori sono i demeriti che gli andrebbero riconosciuti come prodotto critico.
In tal senso, trovo che l’unico vero risultato conseguito, a forza di pressapochismo e sicumera, sia un drammatico arretramento nella comprensione della figura di questo scultore, nella capacità di leggere le sue opere e il suo stile.
Non poteva portare altrove l’assurda pretesa di disquisire di attribuzioni con argomenti divagatori e pretestuosi, del tutto estranei alla lettura stilistica delle opere, argomenti che talvolta danno la netta impressione di essere stati addotti proprio allo scopo di evitarla.
A ciò si conforma il deprimente apparato illustrativo del saggio, dove l’artista sembra dileguarsi dietro una disparata moltitudine d’immagini di corredo e di confronto tipologico, alcune inutilmente grandi.
Mi sbaglierò a ipotizzare che, siccome una semplice presentazione dei documenti ritrovati – per il loro carattere – avrebbe prevedibilmente generato un effetto ‘lista della spesa’, si sarà pensato di costruirci intorno un ambizioso saggio, decisamente fuori dalla portata degli strumenti critici e dell’esperienza di cui si è dato dimostrazione.
Ma ormai ci siamo abituati: la scultura lombarda del Rinascimento si presta fin troppo facilmente a simili sortite, che ci sono sempre state e non accennano a diminuire, anzi, tendono ad aumentare. Dubito che in altri settori di pari rilevanza nella storia dell’arte italiana sia così frequente l’uscita di testi pressoché privi di dignità scientifica, variamente pregni di dilettantismo, arrivismo e, alle volte, di una certa dose di supponenza.
Ritengo che ciò sia conseguenza di due fattori: l’assenza di una tradizione veramente autorevole in questo campo specifico di studi e l’incapacità di formarla in quella che dovrebbe essere la sua sede naturale, cioè l’università. Non mi stupisce che un contributo come quello su cui ci siamo soffermati sia stato pubblicato in un volume con i sigilli di due università, una italiana e una svizzera, i cui contenuti sono stati selezionati da due curatori, uno dei quali docente universitario. L’altro, un intraprendente ricercatore, aveva citato il saggio di Bolandrini addirittura prima che uscisse, allo scopo di far presente che i miei studi su Ambrogio Montevecchia erano stati criticati (nota 42).
Al riguardo, però, rimandava innanzitutto ai pareri espressi in precedenza da una neolaureata che aveva dato la tesi su delle incisioni ottocentesche, e che infatti aveva fornito tali pareri in forma accessoria, per l’appunto mentre parlava di incisioni ottocentesche.
Che manchi una tara sui livelli minimi non c’è neanche bisogno di dirlo.
Quindi non c’è neppure da stupirsi che lo stesso curatore, nel volume di questi atti, accrediti a sé l’attribuzione di un monumento funebre di tardo Quattrocento già formulata nel 1998, peraltro in un testo da lui citato tre righe prima (nota 43).

NOTE

[1] Archivio di Stato di Milano (d’ora in poi ASMi), Notarile, 7742, notaio Beltramino da Giussano q. Ferrando, 1516/02/26. Il documento, già incluso nel Fondo Sironi dell’ASMi, mi è stato segnalato da Francesco Repishti, e la sua lettura mi sarebbe stata impossibile senza l’aiuto di Antonio Battaglia; ringrazio vivamente entrambi, oltre a Davide Dozio e Luca Tosi.

[2] V. Zani, scheda in Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. Scultura lapidea, III, Milano 2014, pp. 65-68 cat. 868.
Posso ora fornire un aggiornamento circa la prima attribuzione del monumento Bagarotti a Fusina, ricondotta nella scheda a Giuseppe Mongeri nel 1872; essa risalirebbe allo stesso autore ma a dieci anni prima (G. Mongeri, Il nuovo Museo Archeologico di Milano, in “Annali universali di statistica, economia pubblica, legislazione, storia, viaggi e commercio”, 12, 1862, p. 187: “Un altro artista lombardo, contemporaneo del Bambaja e non indegno di stargli d’appresso è l’Andrea Fusina. In questa collezione è magnificamente rappresentato dal tumulo al piacentino Bagarotti, vescovo di Bobbio, benemerito della soppressa chiesa della Pace, onde il monumento fu tolto”; il passo fu ripetuto l’anno dopo in altra sede dallo stesso Mongeri, Il nuovo Museo Archeologico di Milano, in “Bollettino di notizie italiane e straniere e delle più importanti invenzioni e scoperte. Progresso dell’industria e delle utili cognizioni”, LVI, 1, 1863, p. 59).

[3] E’ da notare che l’impegno alla fornitura dei marmi da parte di Bagarotti a Montevecchia e al loro trasporto nella casa milanese dello scultore figurava come primo punto del contratto stipulato tra i due nel 1506, per la realizzazione della cappella del Crocifisso nel duomo di Piacenza (vedi oltre, nota 23): “Primo che il predicto Reverendo Monsignore sia obligato dare li marmori necessarii a l’opera de la dicta Capella […], che sono quelli del Domo de Mediolano, potendosi havere da li Deputati de la Fabrica, conducti a tutte spese de sua Signoria alla casa del dicto maestro Ambrosio, posta in Milano, dove luy li ha ad lavorare” (ASMi, Notarile, 2544, notaio Boniforte Gira q. Giorgio, 1506/06/06). Il Bagarotti poteva evidentemente contare su particolari entrature all’interno della Fabbrica del Duomo (vedi anche la nota seguente), e al riguardo sarebbe il caso di verificare una sua eventuale parentela con altri Bagarotti: Filippo, segretario ducale, registrato tra i Deputati delle Porte della Fabbriceria nel 1502 e nel 1503, oltre che nel contesto di una sorta di concessione edilizia richiesta dalla Fabbrica stessa a Ludovico il Moro nel 1497 (Annali della Fabbrica del Duomo di Milano, III, Milano 1880, pp. 97, 119, 124); inoltre, Giuliano, Maffeo e Matteo, ingeneri, anche al servizio della corte ducale, variamente documentati tra il 1471 e il 1513 (P. Bossi, S. Langé, F. Repishti, Ingegneri ducali e camerali nel Ducato e nello Stato di Milano (1450-1706. Dizionario biobibliografico, Firenze 2007, pp. 37-38).

[4] Il virgolettato è ripreso da Annali, cit., p. 187; come informò a suo tempo Edoardo Rossetti (Zani, scheda in Museo d’Arte Antica, cit., p. 66), cui si deve anche la segnalazione della collocazione archivistica del documento originale, esso riporta che il Bagarotti richiese il blocco lapideo “ex quo perfici possit eius marmoreum monimentum quod costruitur in ecclesia domine Sancte Marie de la Pace Mediolani” (Archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano (d’ora in poi AVFDMi), Ordinazioni capitolari, 6, f. 222r.); allo stesso Rossetti si deve il rinvenimento di un’ulteriore richiesta inoltrata dal Bagarotti alla Fabbrica circa sei mesi dopo, il cui oggetto era una lastra marmorea per una lapide, sempre destinata al monumento, più probabilmente per la cappella dell’Assunta nella chiesa della Pace, in cui il sepolcro era collocato (Ibid., f. 235r, 1517 luglio 27).

[5] V. Zani, Ambrogio Montevecchia, scultore nel Duomo di Milano e per Battista Bagarotti, in “Nuovi Studi. Rivista di storia dell’arte antica e moderna”, 7, 1999, pp. 35-56.

[6] B. Bolandrini, L’attività milanese di Andrea Fusina, eccellente scultore e magister lapicida, in Scultori dello Stato di Milano (1395-1535), atti del convegno (Mendrisio, Como, novembre 2018), a cura di M. Moizi e A. Spiriti, Milano 2023, pp. 221-235.

[7] M. C. Loi, Fusina, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, 50, Roma 1998, pp. 802-803; benché datata, merita di essere ricordata anche la voce di Frida Schottmüller, Fusina, Andrea, in U. Thieme, F. Becker, Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, XII, Leipzig 1916, pp. 606-607.

[8] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 221.

[9] “Nessuno pare essersi accorto che il cognome Fusina risultava già associato ai nomi di Bonino e Giovanni da Campione in diversi documenti trecenteschi, come riferito già circa un secolo e mezzo fa da G.L. Calvi (Architetti, scultori e pittori che fiorirono in Milano durante il governo dei Visconti e degli Sforza, parte I, Milano 1859, p. 52), e come mi conferma gentilmente Graziano Vergani a cui devo la segnalazione di due altri contributi in merito (G. Biscaro, Giovanni di Balduccio Alboneto da Pisa e Matteo da Campione, in “Archivio Storico Lombardo”, 1908, pp. 517-520, che a p. 519, nota 1, riferisce di un documento ove è citato «magistrum Bonino de Fuxina»; M.G. Albertini Ottolenghi, I campionesi nella Certosa di Pavia, in I Maestri Campionesi, a cura di R. Bossaglia e G.A. Dell’Acqua, Bergamo 1992, pp. 223-248, speciatim 230, cita un documento su Giovanni de Fusina de Campilione»” (Zani, Ambrogio Montevecchia, cit., p. 51 nota 22); ovviamente, l’iniziale “nessuno pare essersi accorto” è riferito unicamente agli studi su Fusina e la scultura rinascimentale.

[10] G. Franchetti, Storia e descrizione del Duomo di Milano, Milano 1821, p. 139.

[11] Ibid., pp. 24, 105, 108, 143-144.

[12] G. Agosti, Bambaia e il classicismo lombardo, Torino 1990, ad indicem.

[13] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 221; si riportano qui di seguito le note (alla p. 233) relative al passo citato: “_1. M.C. Loi, Fusina, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. L, Treccani, Roma 1998, pp. 802-803. _ 2. G.P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura scoltura et architettura (1584), f. 682, in R.P. Ciardi (a cura di), Scritti sulle arti, Marchi & Bertolli, Firenze 1973-75, vol. II, p. 534 e nota 8; P.A. Orlandi, L’Abcedario pittorico, Costantino Pisarri, Bologna 1718, p. 64. _ 3. G. Merzario, I maestri comacini. Storia artistica di mille duecento anni (600-1800), G. Agnelli, Milano 1893, p. 425. _ 4. Annali della Fabbrica del Duomo di Milano dall’origine fino al presente pubblicati a cura della sua Amministrazione, Indice, G. Brigola, Milano 1885, p. 189. _ 5. G. Franchetti, Storia e descrizione del Duomo di Milano, Gio. Giuseppe De Stefanis, Milano 1821, p. 139. Tale ipotesi è inoltre confermata da G.L. Calvi, Architetti, scultori e pittori che fiorirono in Milano durante il governo dei Visconti e degli Sforza, Tipografia Ronchetti, Milano 1859, vol. I, p. 5, e ripresa da G. Biscaro, Giovanni di Balduccio Alboneto da Pisa e Matteo da Campione, “Archivio Storico Lombardo”, 1908, pp. 517-520”.

[14] Dopo il decisivo accertamento di Franchetti, la notizia della comune appartenenza famigliare di Bonino e Andrea pare essere stata colta per primo da Maurizio Monti (Storia di Como, XII, Como 1831, p. 449  nota 37), che aveva anche già riconosciuto come sbagliata l’idea che i Fusina fossero originari della Valtellina,  ritenendo invece corretta l’indicazione che li voleva milanesi (“Ho già notato l’errore del Quadrio, che passò pure nel Giovio, il quale credette fossero i Fusina nati nel sito di questo nome, che è in Valtellina. Il Lomazzo e l’Orlandi chiamarono milanesi i Fusina, appunto perché nati a Campione, diocesi di Milano”). L’ultimo a far propria la notizia della discendenza di Andrea da Bonino sembrerebbe essere stato, nel 1908, Diego Sant’Ambrogio (Il bassorilievo Bagaroto del Duomo di Piacenza ed il calco suo nel Museo di Milano, in “Osservatore Cattolico”, 26 settembre 1908).
Infine, come mi comunica Francesco Repishti, “Giovanni di Fusina da Campione” era stato incontrato in un documento della Certosa di Pavia, datato 16 dicembre 1396, anche da Michele Caffi, Bernardo da Venezia architetto della Certosa di Pavia, in “Archivio Storico Italiano”, s. III, 9, 1869, p. 190.

[15] C. Torre, Il Ritratto di Milano, Milano 1674 (1 ed.), 1714 (2 ed.).

[16] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 222; si riportano qui di seguito le note (alla p. 233) cui rimanda il passo citato: “_ 10. Ibidem [C. Torre, Il ritratto di Milano, Milano 1714 (2a ediz.)], p. 377. _ 11. Ibidem, p. 389. _ 12. Ibidem, p. 296”.

[17] Torre Il Ritratto, cit. (1674), p. 321; Ibid. (1714), p. 302. Per meglio comprendere l’entità dell’errore in cui è incorsa Bolandrini, si rammenta che proprio col Torre iniziò la vicenda letteraria del monumento Bagarotti, citato a stampa per la prima volta nella prima edizione del Ritratto, in un passo poi ripetuto invariato nella riedizione, successiva di quarant’anni. Tale scarto temporale fa comprendere quanto sia inappropriato citare esclusivamente la seconda edizione del Torre senza fare alcun cenno alla precedente, come fa appunto Bolandrini. Rammento che la bibliografia completa sul monumento è riportata in calce alla scheda scientifica che gli è dedicata nel catalogo del 2014 delle sculture del museo in cui è conservato (vedi sopra, nota 2)

[18] Torre Il Ritratto, cit.  (1674), p. 315; Ibid. (1714), pp. 296-297; anche in questo caso, il brano è invariato nelle due edizioni.

[19] Bolandrini, L’attività milanese, cit., pp. 228-229, 234 note 65, 68, 70.

[20] L’attribuzione a Fusina della statua della Maddalena nel duomo milanese non spetta a Torre, come erroneamente afferma Bolandrini, che tre pagine più in là riferisce invece – stavolta correttamente – che risale al Lomazzo, ovvero a un secolo prima (Bolandrini, L’attività milanese, cit., pp. 222, 225).

[21] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 222; in nota (p. 233 nota 16) sono citati il mio articolo su Montevecchia e la pagina di un saggio di Maria Teresa Fiorio in cui veniva approvata l’attribuzione da me proposta; i due testi sembrerebbero quindi essere identificati come responsabili di aver generato questo “rischio”.

[23] Montevecchia eseguì per il vescovo Bagarotti il monumentale altare del Crocifisso nel duomo di Piacenza, firmato e commissionato nel 1506 (vedi sopra, nota 3); sull’opera vedi L. Ozzola, Uno scultore lombardo del Rinascimento. Ambrogio Montevecchi, in “Rassegna d’Arte”, XI, 1911, pp. 175-176; l’atto di commissione rimase sconosciuto fino a quando, nel 1990, Giovanni Agosti ne segnalò una trascrizione di Luca Beltrami (Agosti, Bambaia, cit., pp. 60, 92 nota 56). L’altra commissione era per una cappella, oggi perduta, nella chiesa milanese di S. Maria presso S. Celso; ne abbiamo notizia da una delibera della Fabbrica del Duomo di Milano, che nel febbraio 1507 concedeva a Montevecchia di assentarsi temporaneamente dal cantiere “ad requisitionem factam nomine reverendissimi domini cardinalis Bobiensis […] pro laborando ad ornamentum cujusdam capellae apud sanctum Celsum Mediolani” (Annali, cit., p. 137; il documento originale è in AVFDMi, Ordinazioni Capitolari, vol. 5, f. 112r.; l’artista è ivi citato come “Ambrosio de Montenegro”, nome non altrimenti identificabile nelle carte del Duomo, da intendersi dunque un come errore nel nominare il nostro artista, come già osservato da Ozzola, Uno scultore lombardo, cit., p. 176 e da Agosti, Bambaia, cit., p. 174). L’altare di Piacenza è più avanti citato da Bolandrini (L’attività milanese, cit., p. 231), senza alcun rimando bibliografico e soprattutto senza riferire che il committente era lo stesso del monumento Bagarotti.

[24] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 231.

[25] Ibid., p. 229; Bolandrini riferisce inoltre che il ritratto funebre del vescovo, cioè la lastra che fa da coperchio al sarcofago, fosse già pronto nel 1517, come apprende da un’erronea notizia da me raccolta e messa in circolo, che ho poi emendato nel 2014, facendo presente come la relativa testimonianza risalga in realtà al 1524 (Zani, in Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco, cit., p. 18).

[26] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 223 (vedi qui anche oltre, nota 34).

[27] Ibid., p. 232.

[28] Era emerso, fra l’altro, che i putti di Fusina nel monumento Birago riprendono il modello antiquario dei cosiddetti Troni di Ravenna (Zani, Ambrogio Montevecchia, cit., pp. 37, 51 nota 24), cosa che a me pare piuttosto importante nel ricostruire la cultura non solo dell’artista, ma anche del contesto; suppongo che invece Bolandrini non la ritenga così rilevante, dal momento che non ne fa parola, nemmeno nel paragrafo dedicato al monumento Birago.

[29] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 230.

[30] Ibid., pp. 229, 231-232.

[31] Zani, Ambrogio Montevecchia, cit., pp. 37, 51 nota 25.

[32] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 231.

[33] Ibid., pp. 222-227.

[34] Alcuni di questi compensi datano al 1495, suscitando nell’autrice l’ambiziosa congettura che li vorrebbe riferibili alla meravigliosa statua di Giuda Maccabeo, saldata a Fusina nel luglio 1497 (“Il Giuda Maccabeo è dunque l’opera a cui stava già lavorando due anni prima? Considerati i tempi medi di esecuzione è assolutamente possibile”; Ibid., p. 223).

[35] Ibid., p. 223; Annali, cit., p. 94.

[36] Loi, Fusina, cit., p. 802; la tesi citata è la seguente: “P. Mazzola, Andrea Fusina scultore e architetto (1474 circa-1526), tesi di laurea, facoltà di lettere e filosofia, Università cattolica del Sacro Cuore, Milano, a.a. 1995-96”.

[37] Riporto qui gli estremi archivistici segnalati da Loi, relativi a “pagamenti effettuati saltuariamente dalla Fabbrica del Duomo” a Fusina, a partire dall’ottobre 1495: “Milano, Arch. della Veneranda Fabbrica del Duomo, Liber mandatorum 1495-1499, n. 684, ff. 38r, 46v, 52v”.

[38] Bolandrini, L’attività milanese, cit., pp. 227, 234 nota 56; Annali, cit., p. 232.

[39] Bolandrini, L’attività milanese, cit., pp. 221, 233 nota 6; Giovanni Antonio Amadeo. Documents / I documenti, a cura di R.V. Schofield, J. Shell, G. Sironi, Como 1989, p. 144 doc. 126.

[40] F. Repishti, Cristoforo Solari architetto. La sintassi ritrovata, Pioltello 2018, pp. 303, 350.

[41] Bolandrini, L’attività milanese, cit., p. 222; il concetto viene ripetuto a p. 231, dove si parla dell’espunzione del monumento Bagarotti dal catalogo di Fusina, dopo che ne aveva rappresentato un punto fermo per più di un secolo: “Di diverso avviso è Vito Zani, che in un contributo del 1999 propone di attribuire la tomba ad Ambrogio Montevecchia su basi stilistiche. Lo studioso reputa Fusina principalmente un architetto, mentre sono molti i documenti inediti d’archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo presentati in questa sede che ribadiscono più volte il suo operato di scultore di pregio, ruolo confermato dal tenore dei pagamenti.” (Ibid., p. 231). Questa mia convinzione di Fusina “principalmente un architetto” non è che una penosa invenzione. E, messa in mezzo a questioni attributive di ordine scultoreo, finisce ovviamente per deviare l’attenzione dall’unico e vero punto della questione, ossia la qualità artistica e lo stile scultoreo. E infatti, che Fusina fosse uno “scultore di pregio” non è certo una novità rivelata dalle carte e dal “tenore dei pagamenti” di cui informa compiaciuta l’autrice, è invece cosa ben risaputa da secoli grazie alle sue opere.

[42] M. Moizi, Tommaso Rodari e il Rinascimento comasco. Un’indagine sul cantiere del Duomo di Como tra XV e XVI secolo, Milano 2020, p. 20 nota 23.

[43] “Come espresso durante l’intervento di Mirko Moizi al convegno Castiglione Olona (1422-2022) […], all’attività di Benedetto Briosco degli anni Ottanta può essere ricondotta anche la tomba di Guido Castiglioni nella chiesa di Villa a Castiglione Olona (si rimanda agli atti del convegno per la disamina della questione)” (M. Moizi, A. Spiriti, Introduzione, in Scultori dello Stato di Milano (1395-1535), atti del convegno (Mendrisio, Como, novembre 2018), a cura di M. Moizi e A. Spiriti, Milano 2023, pp. 26-27 nota 12).
“Al proposito si potrebbe citare anche il caso del monumento funebre di Guido Castiglioni, morto nel 1485; l’opera, collocata nella chiesa di Villa a Castiglione Olona, è da ricondurre senza alcun dubbio al Briosco, forse in società coi Cazzaniga” (V. Zani, L’altare di Santa Caterina nel duomo di Milano e la maturità di Benedetto Briosco, in “Nuovi Studi”, 5, 1998, p. 53).
Addendum [2.6.2023] Già allora, in realtà, il monumento di Guido Castiglioni era appena stato attribuito “senza indugi” a Briosco da Laura Damiani Cabrini (L’incanto delle “pietre vive”: il monumento Longhignana e l’uso del marmo a Milano in età sforzesca, in Scultura Lombarda del Rinascimento. I Monumenti Borromeo, a cura di M. Natale, Torino 1997, p. 266), con la quale – e coi lettori – l’autore si scusa per l’omissione compiuta in totale buona fede.

Giugno 2023

© Riproduzione riservata