Acetoliere romana. Giovacchino o Pietro Belli?

di Gianni Giancane

Nel campo delle argenterie non sempre il punzone di un determinato maestro apposto su un manufatto, ne certifica con assoluta certezza la paternità
È questo il caso di una elegante oliera, (sarebbe più corretto usare il termine acetoliera) realizzata a Roma tra il secondo ed il terzo decennio del XIX secolo in una delle più prestigiose officine orafe della capitale, quella della famiglia Belli [Figura 1].

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Figura 1. Acetoliera romana (primo quarto del XIX secolo) proveniente da una collezione privata bergamasca.

Le origini
I Belli muovono le loro mosse in Piemonte nella prima metà del XVIII secolo, con colui che potremmo definire il capostipite della dinastia, tal Bartolomeo Belli, maestro, che nel 1740 iscrive nel registro dei lavoranti della propria bottega il figlio Vincenzo, nato a Torino nel 1710 (Vincenzo Belli I). Secondo quanto riferito dal Bulgari (nota 1), Vincenzo lo si ritrova, già dal 1741 insieme alla moglie Angela Balbi, figlia di Maestro Bartolomeo Balbi argentiere a Roma, nella Città Eterna, dove ottenuta la patente (di maestro argentiere), esercita la nobile arte con eccellenti risultati grazie alla produzione di manufatti sempre eleganti, spesso espressivi di un gusto di chiara derivazione francese.
Dal matrimonio nasce nel 1756 Giovacchino, che respirando l’aria di famiglia ne assorbe pienamente i naturali effluvi ed il 27 febbraio del 1788, a pochi mesi della scomparsa del padre Vincenzo (7 agosto 1787), superata la necessaria “prova” (nota 2), consegue la patente.
Giovacchino, coniugato con Agnese Azzocchi, dimora nella casa paterna ed esercita nella stessa bottega, in via del Teatro Valle ai ni 63 e 64, dove continuano ad operare anche sotto la sua “direzione”, una ventina di lavoranti già attivi nella precedente gestione. L’elevato numero di commissioni, legato all’eccellente livello delle sue opere (nota 3) nonché ad una notevole maestria gestionale, gli consente un alto tenore di vita (…si concede il lusso di due cavalli con calesse…). Tra il 1803 (aprile) ed il 1804 (giugno) è eletto 4° Console, carica rivestita anche dal padre nel 1765 (nota 4).
Intanto nel 1780 da Giovacchino ed Agnese era nato Pietro, anch’egli immerso nella bottega domestica dove muove i primi passi artistici e per lui, nel 1808, papà Giovacchino “chiede la patente” (nota 5). Bisogna però attendere il 27 novembre 1825 quando Pietro, tre anni dopo la scomparsa del padre (11 settembre 1822), e dopo aver versato la somma di undici scudi, viene eletto maestro; pochi giorni dopo, gli viene confermata la patente paterna. Continua a lavorare nella stessa bottega che fu del padre e del nonno, sfornando manufatti di eccellente qualità, alcuni dalle movenze ancora neoclassiche (tanto per non smentire le tradizioni di famiglia), altri in linea con le mutate esigenze stilistiche dei suoi anni, con passaggi graduali, ma significativi, da linee più specifiche di Giovacchino B., a movimentazioni di un delicato gusto impero, meno rigido e schematico, tendenzialmente armonioso. Non avrà purtroppo lunga vita e come riferito da Costantino Bulgari “passa agli eterni riposi” il 29 luglio del 1828.
Vincenzo II ed Antonio Belli, due figli di Pietro, proseguono l’attività di argentieri per alcuni anni nella solita bottega in Via del Teatro Valle trasferendosi successivamente al n° 86 di Piazza Borghese. Tra i due è senz’altro il primogenito Vincenzo II “il maestro”, autore di opere alquanto pregevoli, attivo dal 1828 al 1859, anno della sua morte.
Presso la sua bottega figura tra gli altri, a partire dal 1848, Antonio Stradella, argentiere di origini e provenienza torinesi (quasi una sorta di cordone ombelicale mai del tutto reciso con la Terra di Piemonte), che per bravura e fiducia acquisite assume “ben presto” la direzione della bottega, diventando successivamente socio di Vincenzo.
Il figlio secondogenito di Pietro, Antonio, collabora dapprima con il fratello, poi dall’8 febbraio del 1860, data in cui viene eletto e patentato maestro, ed essendo già sopraggiunta la scomparsa di Vincenzo, continua l’attività orafa di famiglia rinnovando il contratto di società con lo Stradella fino al 1865. A tutto il 1867 egli paga regolarmente il dovuto tributo annuo di bottega, come da Statuto dell’Università degli Orefici (nota 6), ma da questo momento non si hanno ulteriori notizie.
Si ritiene pertanto che la prestigiosa attività degli argentieri Belli, durata ben oltre un secolo, possa ritenersi conclusa a partire da tale frangente.
Nel grafico sottostante si riporta l’albero genealogico di famiglia, comprensivo dell’anno di nascita e morte per i vari componenti ove conosciuto.

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L’acetoliera, meglio ancora il nostro Portaoglio, sì proprio …oglio!
Del manufatto oggetto di studio [Figura 2] riassumiamo le caratteristiche generali, le peculiarità stilistico-formali e composito-costruttive.

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Figura 2. L’elegante manufatto privo delle bottiglie.

Dimensioni: cm 19,5 x 7 x 21,5 (h)
Peso (della sola parte metallica): gr 415
Materiale: Argento e vetro
Provenienza e periodo di realizzazione: Città di Roma, 1815-1825
Punzonature:
1. Punzone (Bollo) camerale di Roma per i medi lavori, detto del “Triregno” con “infule”, chiavi di San Pietro incrociate, profilo a “scudo gotico”, bontà di “carlino” pari a 899/1000, in uso dal 1815 al 1870 [Figure 3, 4; nota 7].
2. Punzone (Merco) del maestro argentiere, losanga a sviluppo verticale con lettera B nella parte inferiore, al centro coppia di frecce con basi bifide e punte rivolte verso l’alto [Figura 5]; lettera soprastante non presente per incompleta battuta del punzone (nota 8). Pur incompleto il merco è certamente riferibile in prima analisi a Giovacchino Belli, ma come vedremo in seguito, anche a Pietro Belli.

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Figura 3. Il “bollo camerale” incusso tra le “pieghe” del motivo figurativo che adorna il bordo di una delle due coppette portabottiglie.

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Figura 4. Lo stesso bollo alla base dell’acetoliera; così come nella precedente, anche in questa foto appaiono ben leggibili il “triregno con le infule” e “le chiavi incrociate di San Pietro”.

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Figura 5. Il “merco” del maestro argentiere, Giovacchino Belli, in seguito utilizzato anche dal figlio Pietro.

L’acetoliera di raffinato ed elegante gusto “tardo impero”, presenta una base a piattaforma oblunga dal profilo lineare ad unico livello “gradonato”, con coppia di alloggi portabottiglie cavi, ognuno scandito da  elementi zoomorfi rappresentati da tre mascheroni leonini con anello, sostenenti bordo circolare con greca mistilinea ispirata al motivo detto a “ can che corre”, di tipo meandriforme,  ma senza univoca direzionalità, con due segmenti convergenti verso un  riquadro centrale ed altri parimenti divergenti; intercalati tra le anse compaiono delicati motivi floreali. Gli anelli leonini si legano alla sezione inferiore del “incavo” metallico vincolato alla base da tripode a zampe ferine [Figura 6].

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Figura 6. Una delle coppette portabottiglie staccata dalla base in cui si denotano i diversi profili stilistici armoniosamente concorrenti e, in basso, le viti di ancoraggio alla base stessa.

Più piccoli ma raffinati anellini contigui assicurano gli alloggi al fusto centrale, mistilineo, con interposto stemma nobiliare comitale tra un segmento cilindrico, raccordato alla base da rosetta, e parte superiore con mascherone medusoide alato da cui si diparte la presa a serpenti divergenti intrecciati [Figura 7].

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Figura 7. Dettaglio della parte superiore del corpo metallico con volto a forma di “medusa alata” di eccellente fattura, dove le forti movenze caratterizzanti lo stilema si sposano magistralmente con una velata ma diffusa “grazia”.

Le anse serpentiformi stilizzate, arricchite da una sorta di “bocciardatura” a “fondo puntinato” e figurativa delle scaglie dei rettili, conferiscono eleganza formale alla presa.
Fusto ed alloggi portabottiglie sono assicurati alla base da viti passanti e ad essa vincolate da dadini a farfalla quasi tutti coevi [Figura 8].

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Figura 8. Il verso della base d’appoggio con cinque dadi a farfalla originali e tipici del periodo; gli altri due (quello al centro e l’altro in basso a sx) sono stati sostituiti nel tempo da due piccole piastrine, probabilmente perché perduti o non più idonei nella “tenuta”.

I flaconi in vetro [Figura 9] risultano originali, coevi, perfettamente aderenti al supporto interno dell’alloggio, privi di  tappo, così come priva di anelli reggi tappo risulta l’acetoliera, in accordo con alcuni modelli del periodo che prevedevano l’uso di tappi in vetro, o in argento e sughero, vincolati quest’ultimi alle bottiglie da apposito collarino e catenella. L’assenza di qualsiasi traccia d’usura sul collo delle bottiglie induce a ritenere che esse fossero corredate da tappi mobili, oggi non più presenti nel manufatto.

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Figura 9. Le due bottiglie di vetro, base cilindrica a sezione ristretta, corpo centrale piriforme ed orlo estroflesso e sinuoso a tre lobi.

Sobria ma molto espressiva, armoniosa tra le parti e nelle proporzioni, stilisticamente elegante, l’opera risulta impreziosita da tutta una serie di particolareggiati dettagli, la presa zoomorfa, il volto medusoide  alato, lo stemma nobiliare, i tripodi di base,  che contestualizzano idealmente stilemi e dettami tipici del periodo in cui l’Impero lascia posto alla Restaurazione ed anche nelle arti figurative linee più morbide ed avvolgenti, si integrano e successivamente sostituiscono più rigide e schematiche forme.
Escludendo il “peccatuccio” di una deformazione sulle curve superiori della presa (leggera ammaccatura con conseguente perdita di simmetria), si considera decisamente buono lo stato di conservazione generale.

La committenza
Risulta molto interessante il blasone al centro del fusto, presente su entrambi i fronti dell’acetoliera [Figura 10].

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Figura 10. Parte mediana dello stelo centrale con lo stemma gentilizio, scandito dallo scudo in cartiglio e corona comitale sulla sommità; agli estremi dx e sx degli anellini laterali sporgono due perni di raccordo con le coppe portabottiglie. In basso, chiaramente visibili, le code dei serpenti costituenti la presa.

Lo stemma è composto da una corona comitale (riferibile ad una contessa più che ad un conte…) per la tipica foggia a nove perle sostenute da punte frontalmente visibili (per un totale di sedici perle), connessa ad uno corpo sottostante polilobato (cartoccio con arricciature) in cui campeggia con forma “ovata” a goccia rovesciata (cuspide inferiore) lo “scudo” (nota 9), l’interpretazione del quale, utilizzando i principi ed i dettati dell’Araldica, così recita: Gallo al naturale passante su ruota a dieci raggi cinque di oro e cinque di rosso alternati il tutto su oro – tre stelle a cinque punte in fascia allineate di oro su rosso – monte a tre cime in basso di viola uscente dalla punta su azzurro.
Ma cosa significherà mai?
A voler ironizzare sembra una sorta di incomprensibile filastrocca, una specie di scioglilingua senza capo né coda. E invece…
L’Araldica ha una terminologia tutta propria e la descrizione dello stemma prevede sequenze e diciture formali che consentano all’interlocutore (questi anche solo ascoltando, senza necessariamente vedere) di capire come esso sia strutturato, conoscere le parti che lo compongono, le loro posizioni, i loro colori.
Ed ecco che delle figure (che possono essere naturali: animali, fiori, piante, mestieri, etc.; mitologiche; araldiche in senso stretto: fasce, losanghe, bande etc.) diventano fondamentali tanto gli smalti (colori, campitura), quanto la posizione specifica nello scudo.
Nel nostro caso il gallo è “al naturale” perché rivestito di piume e privo di qualsiasi smalto, “passante” perché ha una zampa alzata, proiettato nel movimento a sinistra (se a destra sarebbe stato “rivolto”); la ruota presenta cinque raggi “di oro” perché il colore, e/o il nobile metallo, vengono rappresentati da “puntinatura”, alternati a cinque “di rosso” perché il rosso è codificato da un “tratteggio verticale”. Il tutto “su oro” perché in campitura “puntinata”.
Allineate in una fascia orizzontale, una “pezza” (figura araldica propriamente detta, geometrica), troviamo tre stelle a cinque punte, anch’esse “di oro”, perché campite con “puntinatura”, su un fondo “rosso” (tratteggio verticale) [Figura 11].

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Figura 11. Sezione centrale e superiore del blasone che evidenzia le particolari forme e campiture contestualizzate nel testo. Si notino nel dettaglio le piume del gallo, i raggi della ruota, la fascia stellata.

Nella parte inferiore dello stemma il monte a tre cime è “di viola” perché a “tratteggio diagonale con andamento NE – SW” (se NW – SE sarebbe stato verde), il tutto su campo “azzurro” perché a “tratteggio orizzontale” (vedi ancora Figura 10, nota 10).
Ora, malgrado i numerosi sforzi e tentativi effettuati negli idonei alvei di ricerca, non è stata invenuta al momento alcuna famiglia (presumendola italiana) alla quale attribuire con certezza il blasone e neppure il motto sottostante lo scudo, “Ubi Pax Ibi Virtus”, è risultato di grande aiuto. Ci si riserva di continuare ed estendere ulteriormente le ricerche onde pervenire ad una qualunque conclusione plausibile.
L’attribuzione di paternità
Dicevamo Giovacchino o Pietro?
Nei secoli scorsi (così come può verificarsi tutt’ora) accadeva spesso nelle famiglie di “mastri” argentieri, a Roma come a Genova, a Torino come a Napoli, e così via, che un figlio, sin dalla giovane età, apprendesse i rudimenti iniziali dell’arte orafa nella stessa bottega paterna per acquisire le necessarie conoscenze, affinare progressive abilità e maturare le definitive competenze. In tale contesto, pur realizzando materialmente numerosi manufatti, egli non poteva apporre alcun punzone personale, e dalla bottega uscivano opere siglate solo dal titolare (il padre). Alla morte di quest’ultimo il figlio, se almeno ventenne, doveva sottoporsi a tutta una serie di procedure prima di diventare “maestro” ed esercitare in proprio la nobile arte potendo finalmente siglare i manufatti con un nuovo merco, il cui prototipo veniva inciso su una placchetta e depositato preventivamente presso la corporazione di pertinenza (vedi ancora nota 2).
Di norma, nel periodo di transizione dalla morte del padre (o dalla cessazione della sua attività) all’effettivo personale esercizio, l’argentiere utilizzava ancora il punzone di bottega del padre e ciò poteva protrarsi anche per un lungo periodo, comunque da pochi mesi ad alcuni anni.
Nella nostra oliera il punzone che appare sulla parte esterna del bordo circolare con la greca a “can che corre” (vedi ancora Figura 5) non lascia dubbi.
Interpretando quanto riportato prima da Costantino Bulgari ed in seguito dalla figlia Anna, esso è stato sicuramente usato da Giovacchino Belli nel “periodo francese” 1811-14 e dopo la riforma del 1815 (voluta dal Camerlengo di Santa Romana Chiesa, Cardinale Pacca, Bando del 7 gennaio 1815 che rivedeva tutto il sistema di punzonatura dei preziosi), fino al 1822, anno della sua morte.
Ma così come Giovacchino aveva utilizzato all’inizio della sua “carriera” e per diversi anni il punzone del padre Vincenzo [Figura 12], così Pietro utilizza il punzone di suo padre [Figura 13] nel periodo dal 1822 al 1825 (il 12 dicembre 1825 ottiene la conferma della patente paterna), periodo in cui “…continua a dirigere l’azienda di famiglia sotto la ragione sociale di Eredi Belli”. (Costantino G. BulgariArgentieri Gemmari e Orafi d’Italia, Parte Prima – Roma, Tomo 1, pag.124; Palombi, Roma 1980) e Anna Bulgari Calissoni – Maestri Argentieri Gemmari e Orafi di Roma, pag. 88-89 F.lli Palombi, Roma 1987).

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Figura 12. Il merco di Vincenzo Belli I tratto dall’opera di Costantino Bulgari, Argentieri Gemmari e Orafi d’Italia, Parte Prima – Roma, Tomo 1, pag.126; Palombi, Roma 1980. Il numero 245 assegnato dal grande studioso al merco dell’argentiere, sarà conservato anche dalla figlia Anna nell’opera Maestri Argentieri Gemmari e Orafi di Roma, pag. 88, F.lli Palombi, Roma 1987.

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Figura 13. Il merco di Giovacchino Belli, utilizzato in seguito dal figlio Pietro, come ampiamente dibattuto nel presente lavoro. Riferimenti bibliografici: op. cit. precedente nota: Costantino Bulgari…, pag. 124.

Ottenuta la patente, Pietro deposita due nuovi propri merchi [Figura 14] che usa pertanto dalla fine del 1825 sino alla sua morte (1828).

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Figura 14. I merchi utilizzati da Pietro Belli dopo la sua elezione a “maestro” ed “acquisizione della patente” (1825-1828). Riferimenti bibliografici: op. cit. nota 12: Costantino Bulgari …, pag. 125.

D’altronde il punzone camerale certificante la bontà del titolo pone il 1815 quale caposaldo temporale inferiore per la realizzazione dell’opera e pertanto Giovacchino avrebbe potuto realizzare l’acetoliera (magari in bottega insieme al figlio o ad altri lavoranti) tra il 1815 ed il 1822 (Ϯ), mentre Pietro dalla fine del 1822 alla fine del 1825.
E allora chi dei due?
Per cercare di svelare l’arcano o quantomeno indirizzare più correttamente una qualsiasi ipotesi di lavoro, è stato effettuato uno studio particolareggiato mirante alla ricerca di opere dei due maestri (con sicurezza certificate attraverso l’analisi di punzonature personali e camerali, l’eventuale  conoscenza di specifiche committenze, di atti formali d’informazione archivistica e/o similari) passate in asta pubblica ed altre sparse in pubblicazioni varie, dalle quali attingere eventuali, preziose, informazioni possibilmente risolutive.
Tale sforzo non ha prodotto tuttavia significativi risultati.
Ma ecco che ancora una volta è proprio l’opera madre di Costantino G. Bulgari a “dare significativamente una mano” nella quaestionis explicatio, per la serie: “inutile andare a cercar lontano”, la verità è più spesso sotto i nostri occhi.
E con stupore, sorpresa, quasi incredulità scopro che … alle pagine 121 e 127 del primo dei cinque volumi di Costantino G. Bulgari, Argentieri Gemmari… opera cit., Parte prima Roma, Tomo I, sono presenti due tavole, rispettivamente la otto e la nove [Figure 15 e 16], nelle quali il grande Costantino riporta alcuni “Disegni di Argenterie di Pietro Belli”, oggi al The Cooper Union Museum a New York.

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Figura 15. Alcuni disegni di Pietro Belli nella tavola n° 8, pag. 121, op. cit. Costantino Bulgari Argentieri … . Si noti come in questi esempi prevalga una linea stilistica di gusto ancora neoclassico.

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Figura 16. La tavola n° 9, Costantino Bulgari, op. cit., pag. 127 con il disegno del “Portaoglio” (in basso a sx) risolutivo per la presente indagine.

In particolare, è la tavola n° 9 a risultare alquanto esplicativa grazie all’evidente presenza tra gli altri oggetti riportati, di un “Portaoglioin cui il volto medusoide alato e la presa biansata con serpenti intrecciati risultano ben evidenti!
Eccolo il portaoglio, un po’ diverso nello stile, ma i dettagli e particolari appena rivelati sono molto, molto importanti, praticamente risolutivi!
E pertanto, non avendo al momento reperito, tra i pur numerosi pezzi esaminati, argenti con siffatte forme e motivi decorativi nelle opere certe di Giovacchino, assegnerei al figlio Pietro la più che plausibile paternità della bellissima acetoliera qui discussa.
E probabilmente si potrebbe anche assegnare a Pietro Belli, più che a suo padre, una “a dir poco” splendida caffettiera passata in asta Colasanti il 20 giugno dello scorso anno, lotto 146, alla notevole cifra di 16.500 €, quale opera di Giovacchino Belli nel periodo 1811-25 [Figura 17].

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Figura 17. La stupenda caffettiera battuta in asta Colasanti, dalle eccezionali linee stilistico-formali e chiaramente riferibile alla figura “notata” con la lettera “C” della tavola n° 8 (Fonte Asta Colasanti, catalogo del Giugno 2018, lotto 126).

Il bollo camerale sul manufatto però, parla chiaro (dal 1815!); il merco è quello per il quale dibattiamo … [Figura 18].

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Figura 18. Il bollo camerale di Roma, apposto alla base della caffettiera, in uso dal 1815, ed il merco del maestro (Fonte Asta Colasanti, catalogo del Giugno 2018, lotto 126).

Pertanto, i limiti temporali diventano 1815-22 per Giovacchino e 1822-25 per il figlio Pietro.
Ora, come ben evidente nella tavola n° 8 di pag. 121 dell’opera sopra citata del Bulgari, la caffettiera battuta in asta  ricalca molto, ma molto da vicino, il disegno siglato con la lettera “C”; se ne discosta invero  per alcune decorazioni (tipo la presenza delle palmette lanceolate sulla parte inferiore della coppa e sul coperchio, unitamente ad un profilo maggiormente neoclassico) ma l’impianto formale resta quello del disegno di Pietro: levriero e sua postura, tritone versatoio, profilo globale.
E allora, premesso che assolutamente nulla cambia in merito al valore storico-antiquariale e commerciale della caffettiera, in nessun caso (!), sia stata  essa “forgiata” da Giovacchino, sia da Pietro Belli, oppure a “due mani” nel periodo della loro compresenza (e non dimentichiamo le maestranze che lavoravano in bottega presso i due maestri…), in assenza di ulteriori dati oggettivi, resterebbe il solo, ma importante, riferimento della componente grafica (la tavola n° 8) che mi indurrebbe pertanto ad assegnare a Pietro quest’altro autentico capolavoro artistico.

Considerazioni
Quanto emerso dal presente contributo induce a conseguente riflessione.
Un merco con le lettere G e B inframezzate da coppia di frecce bifide racchiuse in losanga verticale (vedi ancora Figura 5), che compaia su di un argento romano, non depone necessariamente a favore di univoca attribuzione a Giovacchino Belli (ricordiamo sempre che egli lo utilizza dal 1811 al 1814 e dal 1815 al 1822), e neppure al figlio Pietro (dal 1822 al 1825).
Soltanto l’associata presenza di un “bollo camerale” tra quelli in uso prima del 1815 premierebbe il primo dei due, mentre lo stile del manufatto potrebbe aiutare lo studioso, ma non risultare necessariamente e sempre risolutivo.
Pertanto, in assenza di altri parametri oggettivi documentabili che accompagnino l’oggetto e che intervengano a favore della ricerca, quali: atti d’epoca inerenti la committenza e/o la vendita, incisioni coeve e contestualmente originali, riferimenti datari, note storico-archivistiche etc., tutti elementi alquanto improbabili da reperire a corredo del manufatto (soprattutto nel mercato antiquario), sarà piuttosto difficile assegnare con determinata certezza l’opera ad uno dei due artefici. Una conferma di quanto appena sostenuto viene dalla cosiddetta “Coppa Consalvi”, una coppa d’argento, donata in segno di riconoscimento e gratitudine, il 9 maggio del 1825 allo scultore danese Bertel Thorvaldsen da parte del 1° Comitato per l’inaugurazione di un monumento da egli realizzato in onore del Cardinale Ercole Consalvi (Roma 1757 – Roma 1824), Segretario di Stato di Pio VII, oggi al Pantheon di Roma.
L’oggetto, dal 1955 al Museo Nazionale Frederiksborg di Copenaghen, una coppa con coperchio, di dubbio gusto in verità [Figura 19], contenente incastonate due medaglie coniate nel 1824, una di Giuseppe Girometti e l’altra di Giuseppe Cerbara, entrambe recto e verso, era stato commissionato dal succitato  comitato ad un argentiere romano di chiara fama, …tal Pietro Belli,  secondo quanto riferito da  Jörgen Birkedal Hartmann nel suo lavoro “Coppa Consalvi” in “Strenna dei Romanisti” – Natale di Roma 1964 – Ab Urbe Condita MMDCCXVII, Staderini Editore – Roma, pag. 287-294.

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Figura 19. La coppa Consalvi, fonte: Jörgen Birkedal Hartmann “Coppa Consalvi” in “Strenna dei Romanisti” – Natale di Roma 1964 – Ab Urbe Condita MMDCCXVII, Staderini Editore – Roma, tra le pag. 290 e 291.

Sul coperchio e sul bordo superiore della coppa compaiono il punzone camerale in uso dal 7 gennaio 1815 (triregno…) e quello a noi ormai noto con le iniziali G e B e frecce (…), che l’Hartmann pur riconoscendolo come “proprio” di Giovacchino Belli, assegna anche al figlio Pietro dopo la scomparsa del padre e per la durata di tre anni, 1822-25.
Nel 1964 l’opera di Costantino Bulgari era in auge ormai da sei anni… e lo scrittore opportunamente attinse, facendone doverosa citazione, stabilendo in tal modo e con chiarezza chi fosse stato l’autore materiale della coppa.
È questo un caso ampiamente documentato da differenti fattori, tutti risolutivi nell’attribuzione di paternità, e che nello specifico testimoniano l’utilizzo da parte di Pietro Belli del punzone (merco) che fu del padre.
E senza le medaglie? senza riferimenti storici e datari? senza committenze documentate? senza iscrizioni commemorative? … e con lo stesso bollo camerale?
A chi avremmo assegnato la Coppa?
Sarebbe stato un altro caso come tanti…
Ecco perché sono senz’altro da “rivedere” alcune “veloci e facili” attribuzioni a Giovacchino Belli di oggetti d’argento con quel bollo camerale in uso dal 1815 in poi, passati in aste, in vendite pubbliche, giustificate soltanto dalla presenza del “merco” in questa sede discusso.

NOTE

[1] Le notizie sulla famiglia degli argentieri Belli ivi presentate, sono tratte principalmente dalle note descrittive distese in:
Costantino G. BulgariArgentieri Gemmari e Orafi d’Italia, Parte Prima – Roma, Tomo I; Parte Prima – Roma, Tomo II, F.lli Palombi Editori, Roma 1980; già editi da Lorenzo del Turco nel 1958 e 1959. L’opera è completata da altri tre volumi:
1) Parte Prima – Roma, Tomo III e Parte Seconda – Lazio-Umbria, Lorenzo Del Turco, Roma 1966
2) Parte Terza – Marche-Romagna, Ugo Bozzi Editore, Roma 1969
3) Parte Quarta – Emilia, F.lli Palombi, Roma 1974
È questo il contributo universalmente riconosciuto quale il più importante al mondo sullo studio degli argentieri e delle argenterie, avendo solcato di fatto la strada verso un nuovo modo di vedere ed interpretare la ricerca secondo criteri moderni, scientifici, rigorosi, di fatto audaci.
Diversi anni dopo, la figlia di Costantino, Anna Bulgari Calissoni, sentì la necessità di rivedere l’opera omnia del padre, integrarla e corredarla di tutto quanto le scoperte avessero fatto emergere in trent’anni, ma anche, adottando diversi criteri di stesura, di condensarla in due bellissimi volumi che abbracciassero Roma e gli Stati della Chiesa.
Nacque così nel 1987:
Maestri Argentieri Gemmari e Orafi di Roma, F.lli Palombi, Roma 1987
e nel 2003:
Maestri Argentieri Gemmari e Orafi degli Stati della Chiesa, Cornelia Edizioni, Roma 2003
Di fatto le due opere non sono disgiunte, tutt’altro, si intersecano, si integrano una complementare all’altra, e per lo studioso risultano entrambe importanti, imprescindibilmente fondamentali: nella prima una maggiore dovizia di informazioni e particolari, disegni, foto, tavole, etc., nell’altra la dovuta revisione critica ed una più immediata lettura ed estrapolazione dei dati garantiscono un’enorme messe d’informazioni sugli argentieri, loro opere, regolamenti,  leggi, bolli  e sistemi di punzonatura, dalla metà del secondo millennio al 1870.
In realtà, e correttezza d’informazione lo impone, nel 1977, quattro anni dopo la scomparsa di Costantino Bulgari, la Calissoni aveva già provveduto a correggere e revisionare l’opera paterna pensando ad una serie di pubblicazioni sistematiche, una sorta di aggiornamento in itinere, ritenuto dalla studiosa atto essenziale. Nacque così, cofirmata, l’opera:
Regolamenti Bolli e Bollatori della Città di Roma di Costantino G Bulgari e Anna Bulgari Calissoni, F.lli Palombi, Roma 1977, che l’autrice pubblica come “Supplemento n° 1” all’opera madre.
In seguito, secondo quanto si legge in premessa nel successivo volume Maestri Argentieri Gemmari e Orafi di Roma, F.lli Palombi, Roma 1987, la studiosa abbandonò un’ipotesi di lavoro step by step, concentrandosi su una ben più strutturata e definita revisione generale dell’enorme lavoro paterno che portò ai due volumi del 1987 e del 2003 di cui sopra.

[2] Per poter esercitare la nobile arte l’aspirante maestro, secondo quanto aveva stabilito dal 1508 (anno della sua fondazione) l’Università degli Orefici, doveva sottoporre all’attenzione di uno dei Consoli dell’Arte (vedi nota 4) un’opera in argento (un saggio) perché questi potesse accertarne le capacità. Inoltre, manifestare una buona condotta ed aver lavorato a Roma da almeno tre anni nella bottega di un altro maestro, rappresentava la conditio sine qua non per poter essere ammesso alla “prova”, cosa che avveniva nella bottega di uno dei quattro Consoli. Superata la prova, l’argentiere veniva presentato all’ “Assemblea di Maestri” che per votazione (a maggioranza) procedevano all’accoglimento, o meno, della richiesta di ammissione nell’Arte (Regolamenti Bolli e Bollatori della Città di Roma di Costantino G Bulgari e Anna Bulgari Calissoni, F.lli Palombi, Roma 1977, pag. 5-6)

[3] I  lavori di Maestro Giovacchino erano ampiamente apprezzati dalla gente del suo tempo come risulta anche in: Diario Ordinario n° 1682 del 12 Febbraio 1791, Stamperia Cracas – Via San Marco in Corso,  Roma, pag.18, dove si legge:   “…Il sig. G. Belli argentiere presso il Teatro Valle ha ora compita l’opra di un bellissimo Baldacchino isolato o sia Tabernacolo d’argento e metallo dorato d’altezza di palmi 18 che ascende alla spesa di circa 4.000 scudi romani, già ordinato dalla f. m. di Mons. Ciriaco Vecchini vescovo di Recanati…” per la cattedrale di Recanati, ed ancora in: Diario Ordinario n° 1970 del 16 Novembre 1793, ibidem, pag. 9, dove si legge: “… Lunedì 11 Novembre ricorrendo la festa di San Martino Vescovo, la medesima fu celebrata nella Chiesa al Santo dedicata ai Monti De’ Padri Carmelitani, con vago apparato, solenne Messa e Vespr i… . …La mattina l’E.mo Sig. Card. De Zelada, Segretario di Stato e Commendatario di detta Chiesa vi si portò in abito a celebrare la Santa Messa all’Altare del Santo… . …In tale occasione si vidde per la prima volta posta in opera la bellissima muta di Candelieri offerta alla Chiesa medesima dal prelodato Porporato, per servizio dell’Altare medesimo del S. Vescovo, consistente in sei Candelieri grandi, e quattro detti controlumi, con sua Croce compita, e Carte Gloria, il tutto di metallo dorato a diversi colori, lavoro del sig. Gioacchino Belli Argentiere presso il Teatro Valle, i quali per la loro bellezza hanno riportato l’approvazione del numeroso popolo, che v’è intervenuto per venerare il Santo…”.
In ambito contemporaneo molte sue opere vengono proposte in asta a cifre piuttosto considerevoli, ma su tutte credo faccia scalpore un’enorme e bellissima caffettiera, di gusto neoclassico con manico in ebano a forma di levriero, proposta dalla Cambi Casa d’Aste, il 18 Novembre 2015, in Milano, asta n°244, lotto n° 20, venduta per 40.000 euro, base minima di valutazione!!!

[4] Il 23 giugno 1508  – … quarantadue maestri orefici, parte romani e parte forestieri al servizio della corte pontificia, si riuniscono per fondare l’Università degli Orefici, caldeggiata da Papa Giulio II; ad essa faranno capo anche argentieri, gioiellieri, diamantari, incisori e intagliatori di pietre, incisori di coni e sigilli. I convenuti deliberano di erigere una Chiesa in onore di Sant’Eligio, patrono dell’Arte, tra la via Giulia e il Tevere … – .
Ovviamente fu redatto un necessario statuto che prevedeva tra l’altro l’elezione, il 25 giugno giorno della festa di sant’Eligio, di quattro argentieri a Consoli dell’Arte per il tempo scritto di un anno. Il primo (…in dignità…) di questi Consoli rivestiva la prestigiosa carica di “Camerlengo dell’Università degli Orefici” (da non confondere naturalmente con il Cardinale Camerlengo di Santa Romana Chiesa, “preposto” alla Reverenda Camera Apostolica, e responsabile dell’emanazione di qualsiasi editto sulla bollatura dei preziosi)  ed aveva il compito di disciplinare ogni questione, problema, controversia in ambito interno; ma aveva anche il delicato ruolo di “rappresentante dell’Arte” nei rapporti con la Zecca e con la Reverenda Camera Apostolica. (Regolamenti Bolli e Bollatori della Città di Roma, opera cit., pag. 4-6 e pag. 68).
Da rimarcare come, a distanza di oltre cinque secoli, esista tutt’oggi lo stesso Istituto sotto il nome di “Università e Nobil Collegio degli Orefici Gioiellieri Argentieri dell’Alma Città di Roma” con sede in Via Sant’Eligio n° 7, il cui statuto prevede, eletti tra i soci, la figura di un Presidente con titolo di Console Camerlengo, di altri quattro Consoli, tre Sindaci e tre Proboviri.

[5] Molto singolare tale richiesta.
Dagli atti ufficiali a noi pervenuti (proposti in sintesi da Costantino G. BulgariArgentieri Gemmari e Orafi d’Italia, Parte Prima – Roma, Tomo 1 , pag. 124; Palombi, Roma 1980), risulta che Giovacchino Belli oltre ad utilizzare la bottega di Via del Teatro Valle per la produzione di argenterie, disponesse anche di un’altra bottega, in Via del Pellegrino, dove esercitava il similare  mestiere di “affinatore” (letteralmente purificatore di metalli); in quest’opificio si realizzavano manufatti in rame, ottone, da sottoporre poi a doratura, argentatura, ma vi  lavorava anche qualche argentiere.
La detenzione a pieno titolo di due officine dello stesso tipo (considerata tale soprattutto per la presenza di identiche tipologie di maestranze) costituiva atto non consentito dallo statuto del Nobil Collegio (… – Niun Patentato possa ritenere due Botteghe aperte – Cap. XXIV, pag. 32 –  qui nel:  Nuovo Statuto  del Nobil Collegio degli Orefici ed Argentieri di Roma… Sotto Papa Pio Settimo Felicemente regnante… Stamperia Reverenda Camera Apostolica, Roma 1820; ma così era anche in precedenza), e pertanto all’ispezione dei Consoli, e su richiesta formale del Console Camerlengo, il Belli non si oppose ad allontanare tali lavoranti. Chiese però, probabilmente in cambio con sottinteso compromesso, scavalcando di fatto tutta una serie di obbligate procedure, e fidando alquanto sullo “spessore” della personale figura, che al figlio Pietro fosse attribuita la patente di maestro argentiere. Ma naturalmente senza risultato alcuno, del tutto invano.
Infatti, lo statuto del Nobil Collegio degli Orefici ed Argentieri di Roma, che nel tempo veniva sottoposto a revisione e riformulazione, era un atto normativo piuttosto complesso, pieno di rigide assunzioni di responsabilità da parte delle varie figure interessate e sotto costante controllo e verifica da parte dei Consoli i quali, onde evitare inadempienze, frodi, illeciti di ogni tipo, “visitavano” le varie botteghe con assidua e disarmante periodicità, non esitando di intervenire alla minima infrazione e comminando multe alquanto salate o addirittura la chiusura della bottega.

[6] Si rende noto al lettore, per mera curiosità storico-statistica, che nel 1820 per esempio, tale tributo ammontava ad “uno scudo” (Nuovo Statuto del Nobil Collegio degli Orefici ed…, opera cit. Cap. XI, pag. 23 – “Del pagamento dello Scudo annuo, che deve farsi da’ nostri Maestri”).

[7] Tale punzone è detto bollo camerale perché legato etimologicamente alla Reverenda Camera Apostolica (rif. nota 4) da cui dipendevano la Zecca ed i bollatori, i quali pertanto lo apponevano sulle opere degli argentieri dopo aver accertato la bontà del metallo e del suo titolo.
Esso è noto come “Triregno” perché sulle Chiavi incrociate di San Pietro compare la Tiara papale, detta anche Triregno in quanto formata da tre corone sovrapposte, in rappresentanza, secondo l’interpretazione più accreditata ed ufficiale, dei tre poteri del Santo Padre: Padre dei Re – Rettore del Mondo – Vicario di Cristo. Sulla sommità del Triregno compare il globo crucifero.
Ai lati, simmetricamente disposte, appaiono le infule, due strisce di stoffa nastriformi che nella realtà partono dalla parte posteriore della tiara e scendono sulle spalle del Papa.
Nelle argenterie romane il punzone del Triregno, con numerose e più o meno significative varianti, compare una prima volta dal 1734 al 1744, poi definitivamente dal 1815 al 1870.
Dal 1608 al 1734 e dal 1744 al 1811, il bollo camerale presentava al di sopra delle Chiavi incrociate “il Padiglione” (l’Ombrello Liturgico) al posto del Triregno. I profili che contornavano i vari bolli erano cangianti nei differenti periodi e per il diverso titolo dell’argento.
Secondo il Donati il suddetto bollo presenta la forma di uno “scudo gotico a capo gugliato”, per la presenza della cuspide centrale superiore, e “profilo liscio” (Ugo DonatiI marchi dell’Argenteria Italiana”, De Agostini Novara, 1999, pag.99)
Il termine “carlino” si lega etimologicamente a Carlo D’Angiò ed alla moneta fatta coniare dal sovrano a Napoli tra il 1268 ed il 1278.
La “bontà di carlino” ha subito fin dal 1508 (anno della sua “istituzione” con la fondazione dell’Università degli Orefici) numerose, ricorrenti ed alternate variazioni. All’inizio, ogni libbra di peso (a Roma sotto il “dominio pontificio” gr. 339,07) è costituita da undici parti di “fino” (11/12 di argento) ed una parte di altro metallo (1/12) per un corrispondente valore di 917/1000. Successivamente, in tre secoli, si hanno decrementi percentuali di argento nella lega alternati ad incrementi, per assestarsi con l’editto del Camerlengo, Cardinale Pacca, del 7 gennaio 1815, alla composizione definitiva di 10 once (1 oncia = 1/12 di libbra) e 16 denari (1 denaro = 1/24 di oncia) pari a 899/1000. (Regolamenti Bolli e Bollatori della Città di Roma, opera cit.,  pag. 56 e pag. 68-69).
Tale parametro quantitativo resterà in vigore sino all’Unità d’Italia quando, su tutto il neonato territorio nazionale, compariranno tre nuovi titoli per i manufatti d’argento: 950/1000, 900/1000, 800/1000, rispettivamente detti del 1°, 2° e 3° titolo, ma paradossalmente, verrà meno l’obbligatorietà della bollatura dei preziosi!!!

[8] Nello studio delle argenterie il termine “punzone”, dal francese “poinçon” è utilizzato quasi sempre per indicare un “logo” (così lo definiremmo oggi) apposto o da un determinato maestro su un manufatto per certificarne la paternità, oppure da colui che, nell’ambito della Zecca di Stato, di una Corporazione etc., certifica la “bontà” del nobile metallo.
Molto più raramente, praticamente quasi mai, si sente parlare di “bollo” e/o di “merco”.
Occorre fare, pertanto, una necessaria quanto doverosa precisazione.
Il punzone è in realtà un attrezzo di ferro, una sorta di sbarretta alla cui estremità (una delle due) è presente un “simbolo”, una specie di disegno, di sigillo (con sezioni incavate su fondo piatto, grande generalmente pochi millimetri), formato da numeri, lettere, figure o combinazioni di esse, racchiuse quasi sempre in un contorno (profilo) di forma essenzialmente geometrica.
Percuotendo con moderata forza tale attrezzo sulla superficie di un oggetto d’argento, si ottiene, in rilievo, il bollo (che chiamiamo impropriamente punzone!).
Il termine bollo, inoltre, dovrebbe essere riferito, più propriamente a quello “camerale”, di Stato, etc., utilizzato da appositi controllori dopo aver accertato la bontà ed il titolo del metallo.
Se invece si tratta di quello personale, apposto dal maestro argentiere, di norma in bottega, su un’opera da questi realizzata, allora si deve chiamare “merco”. (si veda anche “Regolamenti Bolli e Bollatori della Città di Roma…”, oper cit. pag. 68-69)
Tuttavia, tale differenziazione terminologica, pur essendo formale e tecnica al tempo stesso, è quasi sempre disattesa da tutti gli addetti ai lavori (scrivente compreso) ed il termine generico di “punzone” viene utilizzato sempre ed ovunque al posto degli altri due, e di fatto ma non correttamente li sostituisce.

[9] Precisiamo innanzitutto che per scudo si intende il campo (il fondo), delimitato da un determinato profilo, in cui vengono rappresentate le figure araldiche (alcune dette anche “pezze”). Le caratteristiche morfologiche dello stemma riconducono ad una committenza femminile visto che alle donne era riservato lo scudo dal profilo ovato (anche a goccia), mentre agli uomini la più classica forma appuntata. Uno dei così detti “ornamenti”, corpi che integrano esternamente quanto presente nello scudo, è la corona (posta sempre sopra lo scudo).
Nel nostro caso, lo scudo è di tipo composto, formato da un profilo esterno a cartiglio ed uno interno ovato a goccia sotto il quale si “distende” il motto.

[10] Per un approfondimento delle conoscenze relative al complesso mondo dell’Araldica, si consigliano importanti testi quali:
Enciclopedia Storico – Nobiliare Italiana – Vincenzo Spreti, Milano 1928 6 voll. con appendice, 2 voll., Milano 1935;
Dizionario Araldico, Guelfi Camajani Piero, Manuali Hoepli, Milano 1940.
Per un approccio più immediato, e facilmente raggiungibile, si suggerisce la consultazione di siti web specializzati quali ad esempio:
Portalearaldica.it”, ovvero Il portale dell’araldica dello Studio Araldico Genealogico Guelfi Camaiani”;
Leonemarinato.it”, o altri ancora.

Bibliografia essenziale
Diario Ordinario n° 1682, 12 Febbraio 1791, Stamperia Cracas – Via San Marco in Corso, Roma, 1791.
Diario Ordinario n° 1970, 16 Novembre 1793, Stamperia Cracas – Via San Marco in Corso, Roma, 1793.
Nuovo Statuto del Nobil Collegio degli Orefici ed Argentieri di Roma – Confermato in Forma Specifica Dalla Santità di Nostro Signore – Sotto Papa Pio Settimo Felicemente regnante – Stamperia Reverenda Camera Apostolica, Roma 1820.
Vincenzo Spreti, Enciclopedia Storico – Nobiliare Italiana, Milano 1928 6 voll. con appendice, 2 voll., Milano 1935.
Guelfi Camajani Piero, Dizionario Araldico, Manuali Hoepli, Milano 1940.
Costantino G. BulgariArgentieri Gemmari e Orafi d’Italia:
1) Parte Prima – Roma, Tomo I, e
2) Parte Prima – Roma, Tomo II, F.lli Palombi Editori, Roma 1980
3) Parte Prima – Roma, Tomo III e Parte Seconda – Lazio-Umbria, Lorenzo Del Turco, Roma 1966
4) Parte Terza – Marche-Romagna, Ugo Bozzi Editore, Roma 1969
5) Parte Quarta – Emilia, F.lli Palombi, Roma 1974.
Jörgen Birkedal Hartmann, “Coppa Consalvi” in “Strenna dei Romanisti” – Natale di Roma 1964 – Ab Urbe Condita MMDCCXVII, Staderini Editore – Roma 1964.
Costantino G Bulgari – Anna Bulgari Calissoni, Regolamenti Bolli e Bollatori della Città di Roma, F.lli Palombi, Roma 1977.
Anna Bulgari Calissoni, Maestri Argentieri Gemmari e Orafi di Roma, F.lli Palombi, Roma 1987,
Ugo Donati, I Marchi dell’Argenteria Italiana, De Agostini, Novara, 1999.
Anna Bulgari Calissoni, Maestri Argentieri Gemmari e Orafi degli Stati della Chiesa, Cornelia Edizioni, Roma 2003.

Prima pubblicazione: Antiqua.mi, aprile 2019

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Post scriptum (aggiornamento 25.9.2022)
Grazie alla cortesia di Simone Settembri, restauratore di dipinti accreditato presso i Musei Vaticani, che ringraziamo sentitamente, è stato possibile accertare che lo stemma che compare sull’acetoliera oggetto dell’articolo appartiene alla famiglia marchigiana dei Garulli [Figura A].

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Figura A. Stemma famiglia Garulli