L’armadio di Faustino Bocchi per il conte Avogadro

di Andrea Bardelli

Nel corso della ventesima edizione di Brixiantiquaria (nota 1) viene presentato per la prima volta uno straordinario armadio dipinto, databile attorno al 1730 e senza dubbio attribuibile a Faustino Bocchi e alla sua bottega [FIGURA 1].

armadio Piccinotti

Figura 1

Il mobile è di impianto architettonico e mostra un’alternanza di linee curve e spezzate secondo lo stile che si diffonde tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, al quale si conformano molti palazzi fatti costruire dall’aristocrazia a Brescia, così come altrove.
Gli stessi palazzi vengono decorati dai migliori pittore, sia locali sia “foresti”, con scene in cui sono rappresentati fatti di storia greca e romana e soggetti mitologici, nei quali sono glorificate le varie famiglie e i loro antenati.
Allo stesso modo, questo armadio, probabilmente riprendendo il decoro dell’ambiente destinato ad ospitarlo, è dipinto su fondo chiaro con scene tratte dal repertorio classicista, nel quale s’inseriscono figure insolite, tipiche del gusto barocco e, soprattutto, le figure di gnomi [FIGURA 2] che hanno reso celebre il suo autore: Faustino Bocchi.

Figura 2

Faustino Bocchi
Nasce a Brescia il 17 giugno 1659 nella contrada di Canton del Gambero. I primi biografi del pittore tramandano un suo primo alunnato presso Carlo Baciocchi, milanese trapiantato a Brescia e pittore di scarso rilievo che prese ben presto gli ordini religiosi (nota 2).
Il suo secondo maestro fu Angelo Everardi (Esseradts), nato a Brescia da padre fiammingo e perciò detto Fiamminghino, pittore specializzato in battaglie e bambocciate, dovette costituire un anello di congiunzione fra arte fiamminga e arte bresciana, unitamente ad altri colleghi giunti dalle Fiandre e attivi in quegli anni in Lombardia, come Jan de Herdt del quale fu allievo.
Non vi sono prove, ma solo forti indizi (nota 3) che Bocchi abbia tratto proprio da questo maestro l’idea di raffigurare scene di nani; certo è che questi gli trasmise quella “maniera fiamminga” imperante a Brescia tra Sei e Settecento al punto da venir considerata la capitale dell’arte italo-fiamminga.
Tranne un viaggio a Firenze che si ipotizza abbia intrapreso, Bocchi svolge a Brescia la sua intera parabola artistica, affrancandosi progressivamente dalla maniera scura fiamminga per aderire ad una nuova vena bucolica e uno schiarimento cromatico che in Lombardia caratterizza il passaggio dal Sei al Settecento.
La realizzazione del nostro armadio si inserisce proprio in questo ambito perché è proprio quest’attività complementare di Bocchi nel campo delle arti decorative – di cui si hanno pochi esempi dei quali riferiremo tra breve – che richiedeva un costante aggiornamento di gusto.

I precedenti
Il mobile dipinto a Brescia è molto raro ed è inevitabile che il riferimento stilistico sia da ricercare a Venezia dove, invece, questa tradizione appare consolidata.
Il decoro veneziano dei mobili laccati è, tuttavia, più floreale e pastoso – le scene di genere sono tratte dal repertorio che la stamperia Remondini ha reso celebre – e, soprattutto, meno surreale.
Come vedremo, quindi, la matrice culturale e stilistica va ricercata altrove.

Sotto il profilo prettamente decorativo, un precedente – non in ordine di esecuzione, ma di pubblicazione – è costituito da un armadio con un decoro pittorico del tutto simile, pubblicato dalla Olivari [FIGURA 3, nota 4].

armadio Avogadro

Figura 3

Il mobile è da mettere in relazione alla presenza di Bocchi in Palazzo Avogadro, ora Lechi, ubicato in Via Moretto a Brescia attorno al 1723 o poco prima.
Si tratta di un armadio costruito utilizzando vecchie porte del palazzo, circostanza desumibile con certezza dal fatto che le ante portano i segni dello scorrimento di un catenaccio oltre che per la forma squadrata che rivela trattarsi di un adattamento.

La sua presenza era già stata segnalata nel 1965 dalla Baroncelli (nota 5), la quale non si preoccupa di assegnarne la paternità a Bocchi limitandosi a citarlo come esempio della diffusione del motivo dei pigmei.
Solo nel 1974, il Borselli pubblica alcuni documenti che testimoniano come Fustino Bocchi avesse lavorato alla nuova ala orientale di palazzo Avogadro (nota 6), accompagnato dal fratello Paolo e da altri garzoni. Questi documenti sono di estremo interesse perché consentono di stabilire con buona approssimazione una data d’esecuzione e, soprattutto, perché forniscono importanti indicazioni circa il funzionamento della bottega dei Bocchi. A Faustino competeva l’ideazione e l’esecuzione pittorica, mentre a Paolo la doratura.
A sua volta però, lo studioso si limita a citare i documenti senza dare dimostrazione di essere al corrente dell’armadio; è merito della Olivari aver pubblicato l’armadio per la prima volta e, servendosi di entrambe le fonti, di averne chiarito origine e paternità.

Il confronto con la decorazione di questo mobile non lascia spazio a dubbi circa l’autografia di Bocchi e bottega per quanto concerne l’armadio del quale stiamo trattando, anche se quest’ultimo non è citato espressamente in alcun documento noto, ne possiamo sostenere che il committente fosse il conte Avogadro.
Va invece rilevata la circostanza che il nostro armadio è stato concepito come tale sin dall’inizio ed è giunto a noi perfettamente integro.
In questa sede specifica ci proponiamo di analizzare più da vicino a quali “modelli” potrebbe essersi ispirato Bocchi nella realizzazione di questo capolavoro.

I modelli culturali e iconografici
Sul piano culturale, i referenti di Bocchi sono da ricercare nel teatro comico (nota 7) e nella musica che viene spesso rappresentata in vari aspetti, egli era suonatore di tiorba e amava spesso definirsi “Pittore e musico” (nota 8).
Non risulta che Bocchi sia stato influenzato dai “Viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, pubblicato anonimo nel 1726 e in versione definitiva solo nel 1735, poiché, cronologia a parte, la letteratura basata sui viaggi immaginari – che in Inghilterra e in Francia vanta negli stessi anni una forte seguito – gode di assai poca fortuna in Italia.
Ben più importante per Bocchi è la figura del poeta Francesco Berni, vissuto due secoli prima, dal quale deriva il termine “bernesco” per definire un genere letterario che influenza anche la pittura caricaturale a cavallo tra Sei e Settecento (nota 9).
Il Berni ha sul versante letterario la stessa importanza che, come vedremo tra breve, ha Collot su quello figurativo (nota 10).
Proviamo ora a individuare i referenti di Bocchi sul piano iconografico.
Certamente, in primo luogo, la pittura fiamminga che Bocchi conosce attraverso il suo maestro Angelo Everardi, largamente diffusa nell’ambito culturale bresciano del tempo.
In secondo luogo, l’opera di Jacques Callot (Nancy 1592 – Nancy 1635) autore di una celeberrima serie di “Gobbi” [FIGURA 4] pubblicati per la prima volta a Firenze nel 1616 e divulgati da varie edizioni italiane da raccolte come “Il Callotto resuscitato”, pubblicato ad Amsterdam nel 1715 e di nuovo a Augsburg nel 1720.

gobbo Callot

Figura 4

Con un più preciso riferimento al nostro mobile, il modello principale per Bocchi, così per intere generazioni di decoratori, è Jean Berain (Saint Mihiel 1637- Parigi 1711), decoratore al servizio di Luigi XIV. Egli ideò un vasto repertorio di disegni, diffusi in Europa attraverso veri e propri manuali e ampiamente utilizzati nel decoro di mobili e ceramiche (nota 11).
La caratteristica era costituita da ampi arabeschi, composti su uno schema che utilizza la grottesca cinquecentesca resa celebre da Raffaello.
Una delle caratteristiche peculiari di Berain è proprio l’utilizzo della scimmia e di altri animali, disegnati in varie posizioni e appollaiati su apposite mensole, un motivo che Bocchi sfrutta sapientemente nella decorazione dell’armadio (nota 12).
La matrice del lavoro di Bocchi, non è quindi Venezia, sebbene egli fosse in contatto con la realtà artistica lagunare, giacché, per lo stesso conte Avogadro, egli acquista proprio a Venezia “li Ouati (ovali) de fiori” di cui parlano i documenti (nota 13).
Poiché Berain era famosissimo, è probabile che Bocchi lo utilizzi come fonte di prima mano, ma non si può escludere l’influenza che può aver esercitato su di lui l’opera di un altro francese: Antoine Watteau (Valenciennes 1684 – Nogent-sur-Marne 1721) (nota 14), come è pure possibile che i due, entrambe influenzati da Berain, abbiano seguito un percorso parallelo.
Watteau era un pittore come Bocchi, come lui esercita anche l’attività di disegnatore e, saltuariamente, di incisore, non disdegna l’attività di decoratore come dimostrano i lavori eseguiti nel 1699 per il castello di Meudon, nel 1708 per il Gabinetto del re nel castello di La Muette e, soprattutto, le decorazioni dell’hôtel de Nointel, realizzate attorno al 1708, dove scene galanti si susseguono a grottesche [FIGURA 5].

fregio Watteau

Figura 5

In questi lavori il debito verso Berain è evidente.
E’ certo inoltre che Watteu conoscesse e frequentasse Jaques Callot; sembra chiudersi così un cerchio che riassume i referenti figurativi di Bocchi.

NOTE

[1] Galleria Montournel di Adriano Picciotti. Il mobile apparirà in mostra dopo il recente restauro.[2] Sull’attività di Bocchi pittore, vedi diffusamente: Mariolina Olivari, Faustino Bocchi e l’arte di figurar pigmei, Jandi Sapi Ed, Milano-Roma 1990.[3] Olivari, op.cit., p.10.[4] Olivari, op.cit., Scheda A31 p.64, Armadio con grottesche e nani. Legno dorato e policromo (Brescia, collezione privata). [5] Baroncelli, Faustino Bocchi, Enrico Albricci pittori di bambocciate, Supplemento ai “Commentari dell’Ateneo di Brescia”. Brescia 1965, p. 16 nota 20.[6] Camillo Boselli, Il palazzo Avogadro ora Lechi in Via Moretto a Brescia, Arte Lombarda n. 40 1974 p. 207. [7] Il rapporto tra Bocchi e il teatro comico è delineato dalla Olivari (op. cit., p.15).[8] Un curioso clavicembalo di sua mano, decorato con le usuali scenette buffe e proveniente dalla collezione H.C.Robbins di Londra è passato anni fa sul mercato fiorentino (Sotheby’s, Firenze 1971 n. 98). [9] Il Berni (1497-1535) fu un poeta atipico, infatti, la sua scrittura si contraddistingue da una scanzonata, ma a volte crudele, rappresentazione degli aspetti ripugnanti e ridicoli della vita umana e della realtà, descritti però con lessico brillante e vivace, mai volgare (Michela Pisu).[10] Olivari, op.cit., p. 16.[11] In Francia la tipologia Berain fu soprattutto impiegata nella maiolica a monocromo blu della manifattura di Moustier, in Italia in quella della fabbrica lodigiana di Giorgio Giacinto Ferretti, la cui produzione raggiunse il massimo splendore negli anni 1735-36 (cfr. Elena Villani, In un mobile ad arte povera la sintesi dei modelli decorativi più in uso nel Settecento, Rassegna di Studi e Notizie, Castello Sforzesco, Milano 1986 p.799).[12] Berain, a sua volta, trae questi motivi di animali dalle incisioni cinquecentesche, in particolare da quelle del tedesco Virgil Solis (Norimberga 1514-ivi 1562), il quale illustra una serie di carte da gioco con scimmie arrampicate su grottesche (The Illustrated Bartsch, Vol. 19/1 p.154 ss).[13] Cfr. attestato del 10 gennaio 1733 pubblicato da Borselli (Borselli, op. cit.).[14] Subito dopo la morte di Watteau, l’amico Julienne, per onorarne la memoria, decise di fare incidere i disegni che aveva ereditato dal pittore, insieme ad altri, e nel 1726 pubblicò un primo tomo costituente, con secondo uscito nel 1728, la parte iniziale di quello che viene definito il Recueil Jullienne. Nel 1727 Julienne otteneva il privilegio di poter riprodurre anche i dipinti di Watteau, riunendo i propri a quelli forniti da altri collezionisti (cfr. Elena Villani, op. cit., p.749).

7 Novembre 2007 © riproduzione riservata