Problemi di pittura lombarda di secondo Quattrocento: a proposito di due pubblicazioni su Ponte in Valtellina

di Edoardo Villata

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Vale la pena segnalare un recente lavoro di Alessandro Rovetta, anzitutto per l’intrinseco interesse dell’argomento, ma anche per l’intelligente modalità di pubblicazione open access, che ne permette la libera e gratuita fruibilità.
Si tratta del libro digitale Rinascimento a Ponte in Valtellina. Un palazzo e un ciclo di affreschi in cerca di autore, pubblicato nel 2023 da Franco Angeli. Il testo è diviso in due parti: la prima e più nuova si concentra su un “palazzotto” di tre piani in Via Piazzi 12 a Ponte in Valtellina, già appartenuto alla famiglia Quadrio, di cui Rovetta riconosce lo stemma in un rilievo araldico di metà Cinquecento del portale di ingresso, poi diventato Latteria Sociale della cittadina, e oggi utilizzato parzialmente per fini commerciali e associativi, e parzialmente in stato di sostanziale abbandono. Possiamo quindi augurarci che i riflettori meritoriamente puntati su questa (come ora vedremo) importante emergenza monumentale ne possano favorire un corretto recupero, quantomai urgente e auspicabile.
Attraverso una attenta analisi del manufatto, Rovetta propone di datarne l’origine alla fine del XIV secolo e ne suggerisce una iniziale funzione difensiva, poi trasformata in residenziale, attraverso numerose e non sempre chiare modifiche.
In una delle due stanze del primo piano si trova una affascinante decorazione ad affresco, che costituisce il cuore dello studio di Rovetta e anche della prima parte del presente intervento. Si tratta di un San Gerolamo penitente e di una più grande Crocifissione con i santi Domenico e Francesco affrescate ai lati di una porta, sopra la quale è invece dipinto un Santo Volto (o Veronica) [Figura 1].

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Figura 1. Ponte in Valtellina, Casa Piazzi, affreschi al primo piano (foto Riccardo Marquis).

Si tratta chiaramente del prodotto di un’unica campagna decorativa, anche se la definizione di “trittico” utilizzata da Rovetta mi pare alquanto esagerata. Il tentativo di leggere iconologicamente le tre immagini in stretto rapporto tra loro suona forzato e in definitiva poco convincente, tanto più che esso pone particolare enfasi sulla Veronica che in vero appare la meno raffinata delle tre immagini: ci tornerò comunque più avanti, perché essa potrebbe offrirci una chiave interessante. Sembra comunque certo che tutti e tre gli affreschi siano stati realizzati, per l’appunto, dalla stessa bottega in un lasso di tempo limitato, se non proprio (come pure è possibile) durante un’unica campagna decorativa, ma nondimeno essi paiono sostanzialmente autonomi.
Altro discorso è quale ne fosse la funzione: con opportuna cautela Rovetta suggerisce la presenza di una comunità confraternale quale possibile destinatario, pur riconoscendo che “Le scrupolose ricerche archivistiche di Augusta Corbellini non hanno per altro trovato indizi che ad oggi possano segnalare la sede di una confraternita all’interno del nostro palazzo” (pp. 37-38; il riferimento è al saggio della studiosa contenuta in questo stesso libro digitale, pp. 121-138).
In assenza di maggiori specificità iconografiche, e soprattutto di documenti, la contestualizzazione degli affreschi deve necessariamente procedere dall’analisi stilistica. Da questo punto di vista Rovetta pare non avere dubbi: l’intera decorazione è di matrice foppesca. I primi confronti, avanzati per orientare la lettura, avvicinano la Crocifissione affrescata a Ponte [Figura 2] alla tavoletta dei cosiddetti Tre Crocifissi di Vincenzo Foppa (Bergamo, Accademia Carrara), databile, a seconda della lettura della data ivi iscritta, 1450 o 1455 o 1456 [Figura 3, nota 1].

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Figura 2. Pittore lombardo, Crocifissione. Ponte in Valtellina, Casa Piazzi (foto Riccardo Marquis).

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Figura 3. Vincenzo Foppa, Tre Crocifissi (1450 o 1455 o 1456). Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara.

Si va dal “cielo greve che trascolora rapidamente dall’ocra del tramonto al nero della notte”, alla “preminenza del Crocifisso […] accentuata dallo spalancarsi geometrico dei rilievi laterali, più dolci e verdeggianti in primo piano, più ripidi e petrosi sullo sfondo, con qualche borgo turrito a incoronarne le cime”: un modo di rappresentare la scena “tutto lombardo”, che si ritroverebbe anche nella problematica Crocifissione con santi francescani della Pinacoteca di Brera, già in Sant’Angelo a Milano, inv. 730 (su cui si veda oltre). Pure il dettaglio iconografico del titulus Crucis, dalla grafia INRY, è considerato elemento caratteristico di una cultura figurativa prettamente lombarda.
Anche il San Gerolamo [Figura 4] è letto in tale chiave: “Non sfugge però nuovamente un’ascendenza compositiva foppesca, in questo caso dal San Girolamo dell’Accademia Carrara [Figura 5], che trascina con sé certi accenni mantegneschi, come la resa falcata del profilo roccioso della spelonca; la datazione critica della tavola bergamasca, destinata a devozione privata, è stata recentemente riportata agli anni Settanta.

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Figura 4. Pittore lombardo, San Gerolamo penitente. Ponte in Valtellina, Casa Piazzi (foto Riccardo Marquis).

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Figura 5. Vincenzo Foppa, San Gerolamo penitente. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara.

Utile è anche il san Girolamo, probabilmente più tardo, messo sullo sfondo di un’Annunciazione di ambito foppesco, oggi al Museo Civico di Crema”. Al termine di questi confronti, e altri sulla somiglianza tra il volto del Crocifisso e quello del Cristo in pietà già in deposito alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia (primi anni Settanta) e tra i volti femminili e quelli delle Madonne di Foppa al Metropolitan Museum e alla Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano, e dopo ripetute affermazioni circa il “background foppesco”, viene calato l’asso per chiudere la questione e proporre anche una datazione abbastanza precisa. “La costruzione e i caratteri del paesaggio della Crocifissione pontasca si possono riconoscere, compreso il profilo urbano, nei rilievi lignei con episodi della Passione, per l’altare maggiore/tabernacolo di S. Maria del Monte, presso Varese. In particolare, nella Crocifissione, ancora in loco (presso la clausura delle Romite Ambrosiane), e soprattutto nella Salita al Calvario, oggi al Castello Sforzesco [Figura 6], la composizione dello sfondo è così simile da rendere ulteriormente significativa, per Ponte, l’inversione di piani tra città e paesaggio naturale; risalta inoltre la distinzione centrale della veste candida, nel rilievo ligneo indossata da Cristo. È stato notato che proprio l’ambientazione delle scene varesine si lega alla precedente tradizione dei cori lombardi, mentre la sorprendente narrazione figurata risente dei modelli a stampa di Andrea Mantegna (Deposizione e Flagellazione) e di un niello del fiorentino Maso Finiguerra (Crocifissione). La struttura dell’altare del Sacro Monte era pronta nel 1476 e l’intera macchina completata entro il 1482” (pp. 62-63).

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Figura 6. Giacomo del Maino e Bernardino Butinone (?), Andata al Calvario, ca. 1476-1482. Milano, Musei d’Arte del Castello Sforzesco.

Gli affreschi di Ponte, quindi, seguirebbero non di molto il completamento del complesso altare varesino, e si potrebbero pertanto datare intorno al 1485.
Confesso di vedere il mini-ciclo valtellinese sotto tutt’altra luce.
Anzitutto, nello sfondo della Crocifissione affrescata non riesco a riconoscere alcunché di comune con l’Andata al Calvario già a Varese. In quest’ultima opera le due formazioni rocciose sembrano aprirsi a ventaglio come un sipario, lasciando scorgere Gerusalemme, che in realtà altro non è che un tipico borgo fortificato lombardo, dominato al centro da un mastio turrito. A Ponte invece Gerusalemme è una vera città, murata e irta di torri, alle cui spalle si apre una stretta vallata dominata da due grossi ma non simmetrici massicci, molto più spogli che a Varese, uno dei quali, il sinistro, presenta alla sommità un borgo fortificato completamente aprospettico, quasi ancora tardogotico nel suo fiabesco candore [Figura 7]; probabile che ce ne fosse uno corrispondente a destra, ma in quel punto l’intonaco è caduto, lasciando la parete a vista.

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Figura 7. Particolare della Figura 2.

Venuta meno la dipendenza dal rilievo varesino, perdiamo purtroppo un comodo post quem: dovremo arrivare a una plausibile cronologia per vie diverse.
Anzitutto vorrei far notare che il Cristo (sia quello vero e proprio nella scena del Calvario, sia quello del piccolo crocifisso davanti a cui sta intensamente pregando san Gerolamo [Figura 8], richiama a un modello non lombardo, ma fiammingo, precisamente di Rogier van der Weyden.

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Figura 8. Particolare della Figura 4.

Non ci si può sbagliare nel riconoscere il modello di questo Cristo longilineo, visto di leggero tre quarti da destra, col capo reclinato sulla spalla destra e con i piedi inchiodati in modo quasi incrociato, con le dita del piede sinistro parzialmente visibili da sotto l’altro. I confronti si possono moltiplicare: dal dittico del Philadephia Museum of Art [Figura 9] al trittico dello Abegg-Stiftung di Riggisberg, datato 1445 e proveniente da Chieri [Figura 10], da quello nel Trittico di Jeanne de France a quello nel trittichetto del Kunsthistorisches Museum di Vienna (inv. GG 901), dello stesso momento, 1443-1445 (nota 2).

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Figura 9. Rogier van der Weyden, Dittico della Crocifissione. Philadelphia, Philadelphia Museum of Art, inv. 335-334.

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Figura 10. Rogier van der Weyden, Trittico della Crocifissione, 1445. Riggisberg, Abegg Stiftung.

Van der Weyden ripropone sempre la stessa tipologia di Crocifisso, anche quando non raffigura il fatto storico del Golgota ma un piccolo e umile crocifisso appeso a un muro, come nella Adorazione dei Magi della Alte Pinakothek di Monaco, circa 1455-1460 [Figura 11].

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Figura 11. Rogier van der Weyden, Adorazione dei Magi. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek, inv. WAF 1189.

Anche il suo più grande seguace, Hans Memling, che tanta fama ottenne in Italia – sue opere erano visibili a Firenze e furono studiate da Leonardo, mentre ancora negli anni Venti del Cinquecento un raffinato conoscitore quale Marcantonio Michiel gli attribuiva, in collaborazione con Jacometto Veneziano, il San Gerolamo nello studio di Antonello da Messina, oggi alla National Gallery di Londra (nota 3) – si mantenne fedele a quella tipologia, riproponendola nella tavola centrale del  Trittico di Jan Crabbe conservata a Palazzo Chiericati a Vicenza, circa 1468-1470 (nota 4).
Guarda caso, nelle Crocifissioni oggi a Riggisberg, Vienna e Vicenza si vede un trascolorare del cielo dal buio fondo in alto verso l’albeggiare all’orizzonte, molto più simile a quello di Ponte in Valtellina di quanto non lo sia il cielo nuvoloso e corrusco dei Tre Crocifissi bergamaschi di Foppa.
Quanto ai volti, anche in questo caso mi sfuggono le specifiche connessioni con lo stile di Foppa, in cui la costruzione volumetrica e la tessitura chiaroscurale assumono un ruolo decisamente maggiore. Per contro, non sono foppeschi questi volti allungati e quasi lisci [Figura 12], su cui la luce scorre come su una superficie vetrosa, dai nasi lunghi e dritti (nota 5).

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Figura 12. Particolare della Figura 2.

Volti che paiono, anche in questo caso, guardare piuttosto a esempi rogeriani più ancora che memlinghiani. Si obietterà in questo caso che, sempre nella Crocifissione, i santi Domenico e Francesco alle estremità della composizione, e anche gli squillanti colori delle dolenti ai piedi della croce, in particolare l’isola giallo-rosso-verde della Maddalena, hanno poco di nordico. Condivido, ma non hanno nemmeno alcunché di foppesco: si tratta, come riconoscerà facilmente chi sappia leggere lo stile e metterlo in rapporto con le dinamiche culturali del momento studiato, di un retaggio della lunghissima stagione tardogotica lombarda. Mi pare evidente che vediamo qui le estreme propaggini del mondo di Ambrogio e Bonifacio Bembo e di Cristoforo Moretti, che peraltro, all’epoca di esecuzione degli affreschi di Ponte, di sicuro non erano avvertiti come fatti del passato, né di retroguardia. La novità, semmai, era quella della omogenea lucentezza metallica, dell’inedita tersità dell’aria, di far spiccare le figure non costruendole con la prospettiva, ma facendone risaltare l’ombra ravvicinata sulle superfici di fondo: ciò che accade nel San Gerolamo, quasi una sorta di totem bidimensionale che proietta la propria ombra sulla roccia alle spalle. Questa grotta stalagmitica, piena di scaglie con la punta rivolta all’insù, tali da farla sembrare una sorta di carciofo di cristallo, ricorda molto più Memling di Mantegna, e anche dal punto di vista compositivo non c’è alcun bisogno di richiamare la tavola foppesca di analogo soggetto della Accademia Carrara di Bergamo (nota 6): la soluzione del santo penitente, inginocchiato con alle spalle le rocce desertiche, pur se forse più amata in Italia che nel nord Europa, non è certo solo di Foppa, ma di tanti altri prima di lui, da Jacopo Bellini a Fra Diamante ad Antonello da Messina (nota 7).
Dobbiamo quindi avvicinarci alla cronologia e a una più corretta lettura della cultura figurativa degli affreschi pontaschi, e credo che sarà di non poco aiuto la constatazione che le osservazioni fatte a proposito dei dipinti di Casa Piazzi, a eccezione della permanenza di un solido sostrato cortese, valgano anche per l’altra Crocifissione affrescata sulla parte di fondo della chiesa della Beata Vergine Maria a Buccinasco Castello [Figura 13, nota 8].

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Figura 13. Bottega di Zanetto Bugatto, Crocifissione. Buccinasco Castello, Chiesa di Santa Maria (foto Tommaso Papa).

La chiesa di Santa Maria è di fatto una cappella privata: condivisa dal castello rurale di Buccinasco, presso Milano, nel quale è documentata la presenza della corte sforzesca nel 1463, anche se non è chiaro se la famiglia ducale ne detenesse la proprietà (nota 9), e dalla villa signorile oggi detta Cascina Battiloca, che nella prima metà del Cinquecento fu posseduta da Andrea Alciato (che potrebbe averla acquistata o ereditata dalla madre Margherita Landriani) (nota 10).
La Crocifissione è un vasto affresco, che copre per intero la parete di fondo del presbiterio, e colpisce per la qualità assai eletta, ancora leggibile nonostante il cattivo stato di conservazione.
Non sfuggirà che il Crocifisso, come e anzi ancor più che a Ponte, riprende in maniera ben riconoscibile la tipologia vanderweyderiana (non occorre adesso ripeterne le occorrenze), e che le figure della Madonna e di san Giovanni presentano molte assonanze, nella superficie levigata e cristallina, dove la luce scintilla invece di addensarsi e muoversi come in Foppa. Si potrebbe dire che in questo caso si potrebbe chiamare in causa Donato de’ Bardi accanto a Rogier, e in ogni caso la matrice non solo lombarda ma anche nordica dell’affresco è indubbia. Su suggerimento di Francesco Gonzales, Federico Cavalieri, seguito a sua volta da Andrea De Marchi (nota 11), ha sottolineato la dipendenza da una incisione di Israel van Meckenem tratta da un probabile perduto prototipo del Maestro E. S. [Figura 14].

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Figura 14. Israel van Meckenem, Crocifissione. Vienna, Albertina, inv. L.IX.33.36.

Cavalieri questo debito si inscrive, insieme ad altri da lui individuati tanto in Germania quanto in Francia, in un dato di cultura “più alpino che fiammingo”. Tuttavia, mi pare che questa derivazione, davvero convincente, rimanga confinata all’aspetto compositivo, senza incidere su quello stilistico: il pittore di Buccinasco doveva avere quell’incisione, o una molto simile, nel proprio bagaglio figurativo.
Da parte sua Andrea De Marchi ha offerto una lettura in direzione di Zanetto Bugatto, o per meglio dire l’ha confermata, non trattandosi in senso assoluto di una novità, anche se presentata con dovizia di osservazioni fresche. Lo studioso attribuisce esplicitamente l’affresco a Zanetto Bugatto (la cui identificazione con il Maestro della Madonna Cagnola è di fatto data per acquisita). Non c’è bisogno di dire quanto legata a Rogier van der Weyden sia la vicenda di Zanetto, anche se, come gli studi recenti hanno chiarito, sarebbe un errore schiacciare la sua personalità, che sempre più emerge come quella di un pittore di primo piano, solo sulla pur straordinaria esperienza del “perfezionamento” presso Rogier van der Weyden a Bruxelles tra 1463 e 1465.
A dire il vero, la qualità della Crocifissione di Buccinasco è sostenuta ma non proprio omogenea, e sarebbe forse più saggio considerarla riflesso molto vicino di Zanetto più che una sua opera autografa, secondo la proposta avanzata da Tommaso Papa nella sua tesi di laurea. O per meglio dire, si può concordare con quanto scrive Andrea De Marchi, comunque tendenzialmente favorevole a riconoscere Zanetto quale autore: “Al  momento attuale, visto anche lo stato deperito dell’opera, una sua attribuzione a Zanetto Bugatto resta un’ipotesi di lavoro, ma se si trattasse di un altro pittore, di matrice nordica, influenzato da Joos von Ravensburg e dal Maestro della Madonna Cagnola [cioè, secondo l’orientamento degli studi recenti, che condivido, lo stesso Bugatto], ne rimarrebbe confermata se non rinvigorita l’ipotesi di una presenza capillare nella Milano degli ultimi anni di Francesco Sforza e dei primi di Galeazzo Maria, attorno al tirocinio di Zanetto Bugatto nella bottega di Rogier van der Weyden a Bruxelles, di una cultura fammingheggiante che dovette giocare un ruolo non trascurabile nella stessa maturazione di Foppa e più tardi nella formazione del Bergognone”.
Non è questa la sede per dire alcunché di nuovo su Zanetto Bugatto, né quella è la mia intenzione, ma solo di notare come gli affreschi di Casa Piazzi a Ponte in Valtellina vadano considerati come una manifestazione, relativamente minore e periferica, della stessa corrente fiammingheggiante.
Al più si potrà osservare come la morte precoce di Zanetto abbia precluso una più profonda penetrazione del linguaggio nordico nella carne viva della pittura milanese, in cui sarà indiscutibile l’egemonia culturale da parte di Foppa, almeno fino alla metà degli anni Ottanta, quando l’emergere di Bramantino e la presentazione delle prime opere lombarde di Leonardo amplieranno notevolmente il ventaglio figurativo a disposizione dei committenti più aggiornati. Solo due grandi pittori manterranno vitale un legame con quell’esperienza: Bergognone, già richiamato da De Marchi nel passo sopra citato, e Carlo Braccesco, che certo si mosse nel solco di una tradizione ligure a cui appartenevano tanto Donato de Bardi quanto Giusto di Ravensburg (Jos Amman), ma senza mai perdere il proprio imprinting lombardo. Lungi da me la pretesa di avanzare stentoree affermazioni, vorrei far notare come spunto per possibili discussioni future come la cultura del pittore di Buccinasco, grazie ai confronti avanzati da De Marchi, risulti prossima al Maestro della Madonna Cagnola/Zanetto Bugatto ma anche a Jos Amman, che, perché non ricordarlo, nel 1451 firma la celebre Annunciazione nel chiostro di Santa Maria di Castello a Genova. Il confronto proposto a suo tempo da Cavalieri tra il Crocifisso rogeriano di Buccinasco e il Vir dolorum della pala oggi a Bressanone ma già in Sant’Ambrogio a Brugherio, opera proprio del pittore di Ravensburg, attivo quindi tanto a Genova quanto nel Milanese, è di quelli che parlano da soli. Come se il maestro attivo a Buccinasco avesse accesso ai modelli rogeriani di Zanetto, leggendoli però alla luce delle proprie esperienze non esattamente sovrapponibili. E qualcosa ebbe anche da trasmettere: il volto ossuto e intento di san Giovanni, dallo sguardo fisso e dalla bocca semiaperta, si ritroverà tanto simile nel Sant’Alberto del trittico della Annunciazione di Braccesco oggi al Louvre. Naturalmente non voglio rivendicare la Crocifissione di Buccinasco alla tuttora ignota formazione di Braccesco – a non dire altro, bisognerebbe ignorare il polittico di Montegrazie, che con la sua data 1478 costituisce una barriera invalicabile tra l’affresco di Buccinasco e il trittico parigino (nota 12) – ma solo dire che la direttrice nord-sud tra le Alpi e il Mar Ligure, esemplarmente indagata nei sopra citati studi, ha forse appena iniziato a rivelarci le sue sorprese.
Gli affreschi di Casa Piazzi paiono quindi rispondere a una cultura diversa da quella proposta da Rovetta, e assestarsi su una cronologia decisamente più alta rispetto alla metà degli anni Ottanta in cui li colloca lo studioso. A questo proposito viene il sospetto che proprio la da me negletta immagine della Veronica sopra la porta, alquanto povera in termini qualitativi, ci possa offrire un buon suggerimento. L’immagine, come in altra occasione ricordato da Paola Venturelli (nota 13) e come estensivamente argomentato da Angela Dell’Oca in un saggio contenuto nel libro qui in discussione (L’immagine del velo della Veronica a Ponte in Valtellina, pp. 139-161), costituiva in qualche modo un “segnale” del pellegrinaggio a Roma in occasione dei giubilei.
E proprio a partire da papa Sisto IV i giubilei vennero indetti ogni venticinque anni invece che ogni cinquanta, e quindi il 1475 fu anno giubilare. Come ricorda Dell’Oca (p. 143), proprio a partire da quell’anno lo stampatore tedesco attivo nell’Urbe, Stephan Plannck, iniziò a produrre immagini a stampa del Santo Volto. Mi chiedo pertanto se proprio il giubileo del 1475 possa darci un appiglio cronologico per via iconografica, che sarebbe del tutto accettabile anche sul piano della lettura dello stile. Forse una occasione giubilare aiuterebbe a spiegare anche la concordantia dei due ordini mendicanti evocata dalla presenza contemporanea, ai lati della Crocifissione, di san Domenico e san Francesco.

La seconda parte del libro di Rovetta, dopo una ricognizione su Gottardo e Felice Scotti in Valtellina (pp. 71-86), si sposta (pp. 87-107) sulla collegiata di San Maurizio a Ponte in Valtellina, e in particolare si interroga sulla identità dei notevoli affreschi, talvolta messi sul conto di Felice Scotti (o Scotto), che ornano la cappella della Beata Vergine [Figura 15].

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Figura 15. Ponte in Valtellina, Collegiata di San Maurizio, cappella della Beata Vergine (foto Francesca Bormetti).

In questa trattazione lo studioso si appoggia sostanzialmente sulle ricerche di Stefania Buganza, uscite poco dopo ma già rese note in un convegno del 2022, di cui nel frattempo sono stati pubblicati gli atti. Mi confronterò quindi qui con il saggio di Buganza, dando per sottinteso che esso è condiviso e fatto proprio anche da Rovetta (nota 14).
Felice appartiene a una famiglia di pittori di origine piacentina: il padre, Giorgio, è documentato dal 1438 al 1477 (risulta già morto nel 1480) e di lui rimangono due opere: un San Pietro Martire in Santa Maria delle Grazie a Monza e una frammentaria Crocifissione, datata 1474 e firmata insieme a un altro pittore il cui nome risulta però scomparso, nella Parrocchiale di Sorico. Più famoso è lo zio Gottardo, pittore di fiducia della Fabbrica del Duomo di Milano e della famiglia Borromeo. Sono noti anche i figli di Gottardo, Giovanni Stefano e Giovanni Bernardino, il primo dei quali indicato da Giovan Paolo Lomazzo quale maestro di Gaudenzio Ferrari e di Bernardino Luini (nota 15): “Ne i rebeschi ci sarebbe molto che dire, benché Stefano Scotto senza dubbio sia stato il principale, però Gaudenzio in quelli l’ha superato, il quale fu suo primo discepolo, ed insieme del Lovino” (nota 16).
Sviluppando una impostazione di Giovanni Romano, avevo proposto, ovviamente con cautela, di identificare Felice Scotti nel cosiddetto Maestro di Villa Pecco a Como (ripercorrendo la bibliografia mi sfugge a chi si riferisca Buganza quando scrive che “Malgrado la pubblicazione dei diari di Lanzi [che verranno considerati tra poco], parte della critica recente non ha mancato di esacerbare [sic] la proposta a suo tempo avanzata da Giovanni Romano”, nota 17): un pittore cui sono riferiti una monumentale ma frammentaria Crocifissione affrescata su una parete dello scomparso convento di Santa Croce in Boscaglia a Como [Figura 16] – si trattava probabilmente del refettorio, oggi inglobato nella novecentesca Villa Pecco – e altre due Crocifissioni su tavola, una allo Szépművészeti Múzeum di Budapest [Figura 17], l’altra una pala d’altare oggi alla Pinacoteca di Brera [Figura 18] (inv. 730. Fig. 18), ma proveniente dalla chiesa francescana osservante di Sant’Angelo a Milano (nota 18).

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Figura 16. Maestro di Villa Pecco (Felice Scotti?), Crocifissione. Como, Villa Pecco.

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Figura 17. Maestro di Villa Pecco (Felice Scotti?). Crocifissione. Budapest, Szépművészeti Múzeum.

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Figura 18. Maestro di Villa Pecco (Felice Scotti?) e collaboratore, Crocifissione e santi. Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 730.

Come sappiamo da Luigi Lanzi, Felice Scotti aveva lavorato nella chiesa di Santa Croce in Boscaglia, affrescando (e firmando, evidentemente) una cappella dedicata a San Bernardino. Chiaramente gli affreschi descritti da Lanzi non corrispondono a quello tuttora esistente, impedendo una identificazione sicura. Anche la caratterizzazione stilistica offerta dal grande studioso illuminista non si adatta con immediatezza a quanto vediamo nell’affresco comasco, così legato a un prospettivismo latamente pierfrancescano che, nella seconda metà degli anni Ottanta del Quattrocento, da un lato guarda verso Foppa e forse verso il primo Butinone, a conferma di un vasto orizzonte figurativo, e dall’altro trattiene ancora qualcosa del complesso mondo figurativo milanese e comasco del decennio precedente.
Gli studi sono oggi concordi nel riferire al “Maestro di Villa Pecco” altre Crocifissioni, quella del Museo di Belle Arti di Budapest e quella, di maggiori dimensioni e impegno, nella Pinacoteca di Brera (inv. 730), già in San Francesco Grande a Milano, eseguita quasi certamente con l’aiuto di un collaboratore meno dotato. La Crocifissione di Budapest, nella presentazione ossuta e scheggiata dei personaggi, mostra un legame con la cultura figurativa tra Bologna e Ferrara, del tutto coerente con la produzione pittorica lombarda intorno alla metà degli anni Ottanta, impreziosita da lumeggiature di sapore ponentino, che alla luce anche di quanto detto a proposito di Casa Piazzi, appaiono meno spaesate nel contesto tra comasco e Valtellina di quanto le sentissi all’epoca dei miei primi cimenti con queste tematiche, tra 2000 e 2004. Il nostro pittore, confermandosi quale personalità di rilievo, non si accontenta di una pur felice formula e nell’affresco di Santa Croce in Boscaglia a Como punta decisamente verso un gusto prospettico marcatamente padano, assecondato da un colore acceso e luminoso, quasi da maestro vetraio. Nemmeno questo risultato sarà definitivo, perché la Crocifissione braidense ce lo rivela attento alla svolta leonardesca di Bernardo Zenale (l’approdo milanese doveva quindi essere già avvenuto da qualche tempo, per permettergli di assimilare questa nuova esperienza), denunciata da ombreggiature più mobili e da superfici ammorbidite fin quasi a sciogliersi sotto la morsura corrosiva della luce liquida.
Un linguaggio simile a quello del Maestro, pur se su un piano qualitativo nettamente inferiore, lo si riscontra in altre opere in gran parte accomunate dalla committenza dell’osservanza francescana, a cui pertenevano anche le Crocifissioni ora citate di Como e Milano: gli affreschi della cappella della Immacolata Concezione in Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia [Figura 19] e il sacello della Dormitio Virginis al Sacro Monte del borgo valsesiano, databili entrambi sul 1493 circa, e il tardo tramezzo di Santa Maria delle Grazie a Bellinzona, eseguiti sicuramente poco dopo il dicembre 1512, e terminati abbastanza tardi da poter recepire numerosi suggerimenti dall’analogo tramezzo in Santa Maria delle Grazie a Varallo, firmato e datato 1513 da Gaudenzio Ferrari [Figura 20, nota 19].

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Figura 19. Bottega di Giovanni Stefano Scotti (?), Nascita e Sposalizio della Vergine. Varallo Sesia, chiesa di Santa Maria delle Grazie, cappella della Madonna delle Grazie (foto Giorgio Olivero).

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Figura 20. Bottega degli Scotti, Tramezzo con scene della vita e della Passione di Cristo, post 1512. Bellinzona, chiesa di Santa Maria delle Grazie.

Tutte queste opere, al di là delle oscillazioni qualitative, condividono un linguaggio che parte da Gottardo Scotti e si muove in parallelo al comasco Andrea de Passeris (con qualche significativo scambio attributivo), un forte legame, appunto, con la provincia lombarda dell’osservanza francescana, e non ultimo il fatto che proprio da questo ambiente esce Gaudenzio Ferrari, allievo di Giovanni Stefano Scotto secondo l’affidabile testimonianza del Lomazzo. A partire da Giovanni Testori, la gran parte degli studiosi vede l’esordio di Gaudenzio proprio nei cantieri varallesi legati agli Scotti, e scorge un legame non solo iconografico tra la sua giovanile Crocifissione, databile intorno al 1498-1500, oggi alla Pinacoteca di Varallo, e quella già menzionata di Budapest; e per finire il tardo tramezzo di Bellinzona, in cui fanno mostra di sé aggiornate grottesche alla romana – i “rebeschi” nei quali Lomazzo attesta che Stefano Scotto fu “il principale”, superato però da Gaudenzio (nota 20) –  e, come già detto, numerose citazioni dall’analogo tramezzo affrescato dal Ferrari a Varallo, concluso proprio nel 1513. Tutte queste considerazioni mi avevano portato a suggerire con una certa convinzione il nome di Felice Scotti, inteso quale leader di un clan familiare (o, verrebbe quasi da dire, agnatizio) di pittori, come possibile identità anagrafica del Maestro di Villa Pecco.
Ora Buganza e Rovetta propongono una soluzione diversa, provando a identificare Felice piuttosto con il pittore attivo nella Collegiata pontasca: il gruppo Budapest-Como-Varallo-Milano-Bellinzona sarebbe un problema da indagare tutto nell’ambito della produzione dei fratelli Giovanni Stefano e Giovanni Bernardino Scotti.
Gli argomenti, se interpreto bene, sono sostanzialmente tre.
Il primo è semplicemente la presenza di Felice Scotto per almeno tre volte a Ponte in Valtellina, nel 1498 e due volte nel 1505, la seconda delle quali, 14 ottobre, compare insieme a Giovan Angelo del Maino, “nunc moram trahentes”: probabile si trattasse del montaggio e della pittura dell’ancona dell’Immacolata Concezione di solito e correttamente attribuita a Giacomo del Maino, oggi nella cappella della Vergine ma in origine realizzata come ancona dell’altar maggiore (nota 21). La coincidenza è indubbiamente notevole, ma non più di quanto lo sia, nei confronti della Crocifissione di Villa Pecco, sapere che un pittore molto legato all’osservanza francescana quale Felice aveva lavorato nella stessa chiesa di Santa Croce in Boscaglia.
Il secondo, e, mi pare, ritenuto più importante, è quello legato all’esegesi dei passi di Lanzi dedicati agli affreschi della scomparsa cappella di San Bernardino in Santa Croce in Boscaglia. Nella Storia Pittorica della Italia Lanzi caratterizza così il pittore: “… un Felice Scotto, che in Como dipinse assai per privati, e lasciò in Santa Croce pitture a fresco molto considerabili su la vita di San Bernardino. È vario, espressivo, giudizioso in comporre; uno de’ migliori quattrocentisti, che vedessi in queste bande; allievo forse di altra scuola, avendo disegno più gentile, e colorito più aperto che non usarono i milanesi” (nota 22).
E prima ancora, nel taccuino scritto nel 1793, e pubblicato solo nel 2000: “Vi è anche stato in Como un Felice Scotto, di cui a S. Croce un San Bernardino, 1495. Del medesimo o di simil pittore alcune Madonne in gallerie private sul far del Botticelli, ma meno belle. In S. Croce, i suoi freschi della Vita di S. Bernardino, con indicazione scritta sotto ciascuno, sono di uno stile assolutamente bello. Ha del Pisanello nella lunghezza dei corpi e delle stature. È vario, espressivo, naturale, giudizioso nel comporre. Pochi quattrocentisti in questi paesi ho veduto di tanto merito. È vicinissimo al buon gusto del Ghirlandaio, con Pietro [Perugino] non ha nulla di simile. Le figure sono piccole e le storie son divise in molti spartimenti” (nota 23).
Non risulta così immediato accordare le descrizioni lanziane con quanto si vede nella attuale Villa Pecco, e già vent’anni fa non mi nascondevo il problema. Buganza in modo estremamente convincente legge gli affreschi di Ponte [Figure 21 e 22] quale opera di un pittore fortemente influenzato dalle opere di Jacopino de Mottis e della sua squadra alla Certosa di Pavia, datandoli a ridosso di queste ultime (circa 1495), quindi nella seconda metà degli anni Novanta.

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Figura 21. Ponte in Valtellina, Collegiata di San Maurizio, cappella della Beata Vergine, particolare (foto Francesca Bormetti).

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Figura 22. Ponte in Valtellina, Collegiata di San Maurizio, cappella della Beata Vergine, particolare (foto Francesca Bormetti).

Si tratterebbe quindi di un maestro di cultura milanese-pavese, in un certo senso un “forestiero” al pari di Giacomo del Maino: un dato che forse non si attaglia pienamente al profilo di Felice Scotti. O si tratterebbe quantomeno di un pittore abbastanza giovane da poter venire così radicalmente forgiato da quella esperienza: mi pare difficile pensare quindi a un maestro ultratrentenne, e con già almeno una quindicina di anni di attività in proprio, quale era Felice all’altezza del 1495.
Indubbiamente, però, le svelte silhouettes delle sibille pontasche [Figura 23] possono richiamare, almeno in teoria, le figure viste da Lanzi, che gli ricordavano Pisanello e Botticelli (quindi, possiamo immaginare, figure esili ed elegantemente dinoccolate). Ma al tempo stesso ho qualche dubbio che le fisionomie talvolta caricate e gli occhi fissi e spalancati delle figure di Ponte [Figura 24] avrebbero incontrato il plauso di Lanzi, che dopotutto era contemporaneo di Canova, non di Modigliani.

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Figura 23. Pittore prossimo a Jacopino de Mottis, Sibilla. Ponte in Valtellina, Collegiata di San Maurizio, cappella della Beata Vergine (foto Francesca Bormetti).

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Figura 24. Pittore prossimo a Jacopino de Mottis, Sibilla. Ponte in Valtellina, Collegiata di San Maurizio, cappella della Beata Vergine (foto Francesca Bormetti).

Come contemporanei di Canova o di Batoni erano i suoi interlocutori locali, dei quali, come mi ricorda Emanuele Pellegrini, sempre egli si serviva per ottenere notizie e indicazioni – utili, anzi essenziali, anche in sede di sopralluogo sul campo -, e dai quali il suo apprezzamento estetico (di per sé interessato piuttosto alla classificazione scientifica, di schietta impostazione illuministica, che al giudizio di valore) veniva non di rado influenzato.
Per contro dal danneggiato affresco di Villa Pecco emergono, qua e là, figure di eletta eleganza, come le sante Caterina d’Alessandria e Chiara sul margine sinistro [Figura 25] e l’accolta di santi francescani su quello destro, o, più avanti nel tempo, come la raffinatissima Santa Caterina della Crocifissione di Brera [Figura 26], che reggerebbero almeno altrettanto bene il confronto con le righe di Lanzi.

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Figura 25. Particolare del margine sinistro dell’affresco di Figura 16, ivi non visibile

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Figura 26. Particolare della fig. 18.

Si deve anche considerare il fatto che, come dimostrato dalla considerazione in sequenza delle tre Crocifissioni di Budapest, Como e Milano, il Maestro di Villa Pecco si dimostra pittore versatile e dinamico, pronto a rinnovare in modo anche profondo il proprio bagaglio figurativo, pur rimanendo sempre riconoscibile. Non mi stupirei quindi che il carattere etereo e gentile descritto da Lanzi potesse intendersi quale sigillo di una fase precedente di Felice, nel caso più prossima alla tavola oggi in Ungheria. Si obietterà che Lanzi indica una data 1495, vicina semmai alla tavola braidense, ma pare che lo studioso marchigiano si stesse riferendo a una “ancona in noce” raffigurante San Bernardino e altri santi, registrata in un inventario dei beni del convento comasco steso nel 1805 (nota 24). Non sarebbe particolarmente strano che la realizzazione della pala d’altare seguisse di alcuni anni quella degli affreschi nella stessa cappella. Il primo documento oggi noto su Felice risale al 27 maggio 1480: Felice è orfano di padre ma ancora non maggiorenne, in quanto ha bisogno della presenza della madre per accogliere come allievo Bartolomeo de Benzi. Non so chi abbia detto, procurandosi i rimbrotti di Buganza, che si tratta tout court di un documento di associazione; da parte mia ho sospettato (non sarebbe certo un caso unico) che il formale contratto di apprendistato nascondesse in realtà una associazione di fatto: così si spiegherebbe il fatto che già nel 1484, dopo che era trascorsa solo la metà del periodo prevista per il presunto discepolato, Felice e Bartolomeo, “ambo pictores”, quindi maestri autonomi, siamo menzionati insieme come testimoni a un atto (da notare che, per poter svolgere questo ruolo, dovevano essere entrambi maggiorenni). Sappiamo da un altro documento che Bartolomeo “aufugit” da Felice nel 1487, poco prima della scadenza di quello che secondo la lettera del documento del 27 maggio 1480 avrebbe dovuto essere il suo apprendistato (un apprendistato ben tardivo, se a metà della sua durata il de Benzi è già pittore e già maggiorenne). Su questo si dirà ancora qualcosa: per ora mi limito a osservare che nel 1480 Felice doveva essere più o meno ventenne e già attivo quale pittore. Durante la sua formazione opere come gli affreschi di Casa Piazzi dovevano suonare ancora abbastanza nuovi e moderni, e il loro scintillìo nordicheggiante, capace di innestarsi sul tramonto dello stile cortese, poteva intrigare il figlio di un pittore che nella sua fase tarda dimostra di essere al corrente del gusto espresso dalla corte di Milano.
Rileggendo con attenzione il taccuino lombardo di Lanzi, riusciamo a capire che i riferimenti a Botticelli e Ghirlandaio come confronti sono di tipo rispettivamente iconografico (“Del medesimo [Felice] o di simil pittore alcune Madonne in gallerie privare sul far del Botticelli”) e compositivo: il nome di Ghirlandaio è speso da Lanzi anche a proposito degli affreschi di Boccaccio Boccaccino nel Duomo di Cremona (“Non cede nel gusto moderno a Ghirlandaio ne’ freschi”) (nota 25).
Commenta Buganza: “il profilo del maestro cui allude Lanzi è quello di un pittore che dà un certo valore alla linea e al volume, attento alla resa dello spazio, con qualche eleganza un po’ leziosa che ai suoi occhi richiama il tardogotico Pisanello. Direi, a meno di voler forzare i termini del discorso di Lanzi, un pittore diverso da quello che produce il corpus di opere gravitanti intorno alla Crocifissione di villa Pecco, maestro e bottega gradevoli di orientamento filoferrarese e foppesco, ma che difficilmente avrebbero strappato all’abate Lanzi giudizi così entusiastici” (nota 26).
In realtà, l’ho già detto, le “eleganze un po’ leziose” possono trovarsi anche a Como e a Brera, se si ha voglia di cercarle: diverse da quelle di Ponte ma ugualmente calzanti. Quanto al corpus di opere del Maestro di Villa Pecco, già ho osservato che la studiosa accoglie nel corpus del Maestro, senza discussione preliminare, anche opere allogene o legate in modo più indiretto; così come gli affreschi di Varallo Sesia (nella cappella delle Grazie in Santa Maria delle Grazie e nella locale Pinacoteca, provenienti dal sacello della Dormitio Virginis al Sacro Monte). Opere, queste ultime come gli affreschi del tramezzo di Bellinzona, che vanno sì riferite alla bottega familiare (in senso lato) degli Scotti, ma che sono di qualità nettamente più modesta rispetto alle opere del Maestro di Villa Pecco. Farne un tutto unico per poi dire che Lanzi non avrebbe speso parole così elogiative per l’autore di affreschi non esaltanti quali quelli di Varallo e Bellinzona pare obiettivamente una forzatura.
Direi pertanto che questo argomento sia estremamente scivoloso e non garantisca appigli sicuri, né in un senso né nell’altro, e risulti quindi poco prudente farne addirittura il pilastro di un tentativo di identificazione.
Non si tratta di un vero e proprio argomento, ma Buganza richiama a favore dell’identificazione in Felice del pittore di San Maurizio a Ponte anche un ulteriore elemento di contesto. Il probabilissimo esordio di Gaudenzio Ferrari (allievo, secondo Lomazzo, di Giovanni Stefano Scotto) nei citati affreschi della Dormitio Virginis a Varallo, insieme ad altri elementi che ho a suo tempo discusso in dettaglio e su cui non tornerò in questa occasione, hanno fatto propendere la quasi totalità della critica a identificare la bottega responsabile come quella di Giovanni Stefano e quasi sicuramente di suo fratello Giovanni Bernardino, spesso associato a lui nei documenti. Che il Maestro di Villa Pecco parli un linguaggio simile, ma a un livello decisamente più alto, suggerisce una stretta connessione, rafforzata dal comune successo presso cantieri dell’osservanza francescana (Santa Croce in Boscaglia a Como, Santa Maria delle Grazie e Sacro Monte a Varallo, Sant’Angelo a Milano, Santa Maria delle Grazie a Bellinzona): che questo “super-Stefano Scotti” lavori proprio in uno dei cantieri in cui è documentato il cugino di Stefano, Felice, continua a parermi una coincidenza davvero singolare. Buganza sintetizza così: “la produzione di una bottega legata per molti fili a quella che a Varallo Sesia opera nelle cappelle delle Grazie e della Dormitio Virginis, una bottega che credo identificabile nell’équipe di Giovanni Bernardino e Giovanni Stefano Scotti, i figli di Gottardo. La loro presenza a Como, che potrebbe parerci fuori luogo, può essere spiegata con la fiducia che gli osservanti francescani riponevano in alcuni artisti. A gettare un ponte tra Como e Varallo Sesia, andranno ricordati anche i reiterati soggiorni a Santa Croce in Boscaglia, fin dentro gli anni Novanta del Quattrocento, di padre Bernardino Caimi, il fondatore del Sacro Monte di Varallo. non andrà neppure dimenticato che l’agnazione degli Scotti a Como era fittamente presente” (nota 27). Tutto perfetto, a parte forse il considerare la Crocifissione di Villa Pecco tout court la stessa cosa degli affreschi di Varallo (a Como la cultura, pur affine, è più complessa e la qualità nettamente più alta): e infatti “È evidente che siamo, con tutte queste opere, in un regime di bottega famigliare. Su questo aspetto ha fatto leva parte della critica, ipotizzando la presenza nell’affresco di villa Pecco di Felice Scotti, che era cugino di Giovanni Stefano e Giovanni Bernardino e residente a Como. A rendere però poco praticabile questa strada è quanto lo stesso Luigi Lanzi si appunta in merito a Felice Scotti nel proprio taccuino lombardo del 1793” (nota 28). Il che, come si è visto, è una petitio principii tutt’altro che dirimente.
Si potrebbe ancora opporre il fatto che i due fratelli Giovanni Stefano e Giovanni Bernardino siano documentati in Sant’Angelo a Milano, la chiesa da cui proviene la Crocifissione oggi a Brera: nel novembre del 1499 i fratelli Scotti vantavano crediti verso gli eredi di Filippo Maria Sforza, fratello di Ludovico il Moro, forse legati al lascito testamentario da parte dello Sforza nel 1492 per l’erezione di una cappella in Sant’Angelo (nota 29). Le date potrebbero adattarsi alla cronologia presumibile della pala braidense, che però non presenta alcuno specifico riferimento sforzesco; si è peraltro già indicato che si tratta di opera del Maestro di Villa Pecco coadiuvato da almeno un collaboratore, omogeneo stilisticamente ma meno dotato. La presenza dei due fratelli Scotti potrebbe nel caso leggersi come legata alla collaborazione con il Maestro, tanto più logica se si trattasse di un parente. Torna utile anche far notare che il 15 settembre 1503, in una riunione del Consiglio generale di Ponte in Valtellina, Felice è detto “de Mediolano”, non eventualmente “de Cumis” come la sua appartenenza diocesana avrebbe suggerito. Credo che questo suggerisca una sua non episodica frequentazione della città o almeno della diocesi di Milano, che, documenti alla mano, potrebbe essere avvenuta o in giovane età (ma avrebbe avuto senso richiamarla venti o forse più anni dopo?), o tra 1490 e 1498, quando non abbiamo altri documenti su di lui (fermo restando il 1495 della perduta pala bernardiniana per Santa Croce in Boscaglia a Como).

Rimane il terzo, serio argomento: l’influenza del pittore di Ponte sul contesto della pittura valtellinese di primo Cinquecento, e in particolare dell’allievo/socio Bartolomeo de Benzi.
La cultura del pittore di Ponte è molto ben chiarita da Buganza: essa affonda nell’esperienza del cantiere certosino di Pavia, e in particolare nella società capeggiata da Jacopino de Mottis. La vicinanza è talmente stretta da indurre la studiosa a riconoscere lo stesso pittore anche in alcuni affreschi monocromi della Certosa, e a postulare una data per il ciclo pontasco a ridosso della decorazione pavese, quindi nella seconda metà dell’ultimo decennio. Giustamente Buganza vede riscontri nelle opere di Battista da Musso, Sebastiano da Piuro e Giovanni Antonio Ghezzi: una tale ventata di novità difficilmente poteva rimanere senza risposta. Ma il riscontro decisivo può essere fornito, a evidenza, solo da Bartolomeo de Benzi, dato il lungo e – comunque lo si voglia intendere – formativo rapporto con Felice Scotti.
Buganza ne sottolinea il debito nei confronti del pittore di San Maurizio a Ponte: sul piano delle idee compositive, come nella Assunzione della Vergine affrescata in  Santa Maria delle Grazie a Gravedona (circa 1500-1501), aggiungendo che “ Particolarmente toccato dalla pittura del Maestro di Ponte è sicuramente Bartolomeo de Benzi, più sensibile agli stimoli filoferraresi presenti nel ciclo della cappella di Santa Maria [in San Maurizio]” (nota 30). Stimoli filoferraresi (e io aggiungerei sempre, in automatico, filobolognesi; anzi prima questi di quelli) che però a mio avviso provengono piuttosto dal mondo del Maestro di Villa Pecco e corrono in perfetto parallelo con quello dei probabili fratelli Scotti di Varallo e poi Bellinzona. Proprio guardando a opere relativamente precoci di Bartolomeo de Benzi, come il polittico ad affresco in Santa Maria delle Grazie a Gravedona (riprodotto da Rovetta, p. 104) e ancora più il polittico di Santa Maria di Vico a Nesso, datato 1500 [Figura 27], si può constatare che la cultura figurativa ivi espressa è in tutto quella del “clan Scotti”: certo non ci sono le finezze del Maestro di Villa Pecco, ma ritroviamo per esempio la sua tavolozza “aperta”, come direbbe Lanzi, ricca di toni delicati, sul giallo, rosa, grigio, anche se privi delle morbide e tremolanti lumeggiature, già in debito con lo Zenale dei primi anni Novanta, che vediamo nella Crocifissione di Brera (e giustamente, dato che il sodalizio tra Bartolomeo e Felice si concluse burrascosamente nel 1487).

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Figura 27. Bartolomeo de Benzi, Polittico, 1500. Nesso, chiesa di Santa Maria a Vico.

Il livello non eccelso di Bartolomeo fa sembrare le sue opere ancora più simili a quelle dei frescanti di Varallo e Bellinzona (salvo nelle scelte cromatiche, sostanzialmente le stesse di Villa Pecco), ma è indubbio che l’imprinting risulti in definitiva analogo. Che il debito di Bartolomeo de Benzi, attivo per sette anni a fianco di Felice Scotto, sia maggiore, o per meglio dire più strutturale verso il Maestro di Villa Pecco che verso quello di Ponte è un dato della massima importanza. Ritengo che si tratti di un punto di metodo, meritevole di essere sottolineato: in mancanza di prove certe in un senso o nell’altro, la testimonianza fornita dallo stile delle opere deve prevalere su quella, oltretutto ambigua, di fonti scritte tarde, per quanto dovute a un grande storico dell’arte quale Lanzi. Se gli altri argomenti (i testi di Lanzi, la presenza di Felice sia a Ponte sia a Como) possono essere interpretati a favore dell’una come dell’altra tesi, la stretta connessione con l’osservanza francescana e soprattutto la testimonianza stilistica di Bartolomeo de Benzi fanno pendere la bilancia di Felice Scotti a favore del Maestro di Villa Pecco: fermo restando che fino a quando non avremo sotto gli occhi un’opera sua firmata o sicuramente documentata, il dibattito non potrà dirsi concluso.
Northeastern University, Shenyang

NOTE

[1] M. Albertario, scheda n. II. 6, in Accademia Carrara Bergamo Dipinti Italiani del Trecento e del Quattrocento. Catalogo completo, a cura di G. Valagussa, Milano 2018, pp. 119-123, con completa bibliografia precedente.

[2] Per queste opere si vedano in sintesi M. Davies, Rogier van der Weyden, Milano s. d., pp.211, 226-227, 231-232; R. Passoni, Opere fiamminghe a Chieri, in Arte del Quattrocento a Chieri, a cura di M. Di Macco e G. Romano, Torino 1988, pp. 67-97. Si veda anche B. O. Gabrieli, Da Audenarde a Chieri: l’Annuciazione di Gillis Tavernier, in “Arte Cristiana”, CXII, 954, 2024, pp. 268-285, particolarmente le pp. 268-269 e note relative, con ulteriori esempi piemontesi di Crocifissioni di osservanza rogeriana, a conferma della capillare diffusione del modello in aree non lontane da quella di nostro interesse.

[3] M. A. Michiel, Notizia d’opere del disegno, a cura di C. De Benedictis, Firenze 2000, p. 56.

[4] D. de Vos, Hans Memling, catalogo della mostra, Bruges 1994, pp. 42-45.

[5] Che il luminismo di Foppa sia altra cosa da quello fiammingo o anche fiammingheggiante, era già stato messo in chiaro da M. G. Balzarini, Vincenzo Foppa. La formazione e l’attività giovanile, Firenze 1996, p. 56.

[6] M. Albertario, scheda n. II. 17, in Accademia Carrara Bergamo, cit., pp. 164-167, esemplare per completezza di informazione anche se mi risulta difficile condividere la datazione intorno al 1485.

[7] Per quanto riguarda la grafia INRY del titulus Crucis, non lo ritengo un argomento di particolare pregnanza; non più che dire che la versione YNRI, che si legge nella celebre Deposizione di Giottino alla Galleria dell’Accademia di Firenze, sia tipicamente fiorentina. Probabilmente uno studio e un repertorio delle varianti grafiche delle iscrizioni latine (o comunque non vernacole) nell’arte antica avrebbe una sua utilità, ma dubito che porterebbe a risultati, diciamo così, deterministici.

[8] Sulla Crocifissione di Buccinasco rimando al buon lavoro di T. M. Papa, La Crocifissione della chiesa della Beata Vergine Maria in Buccinasco Castello, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, a. a. 2016/2017, relatore E. Villata, e più di recente a A. De Marchi, Jos Amman von Ravensburg, Zanetto Bugatto e la parte fiamminga nella pittura lombarda di età sforzesca, in “Nuovi Studi”, 27, 2023, pp. 61-96, particolarmente le pp. 85-86 3 note relative.

[9] A. Dina, Ludovico il Moro prima della sua venuta al governo, in “Archivio Storico Lombardo”, XII, 1896, pp. 737-776, particolarmente p. 743.

[10] A. Belloni, Andrea Alciato e il diritto pubblico romano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, II, pp. 650-656.

[11] F. Cavalieri, ‘Altra pratica et altro modo’. Le relazioni fra Lombardia e settentrione nella pittura del Quattrocento. Capitoli di un racconto, in “Nuovi Studi”, 27, 2023, pp. 7-21, particolarmente pp. 12-13; De Marchi, Jos Amman, cit., pp. 85-86.

[12] Sul polittico di Montegrazie si veda in sintesi A. Sista, Il polittico: la tecnica pittorica, M. C. Galassi, Il polittico: lettura in profondità, F. Boggero, Il polittico e i suoi restauri, in Montegrazie. Un Santuario del Ponente ligure, a cura di F. Boggero, Torino 2004, rispettivamente pp. 71-74, 75-77, 146-155.

[13] P. Venturelli, Una sola amo con fede. Medaglie ed enseignes tra Milano e Roma, Leonardo da Vinci e Caradosso, in Oltre l’ornato, Il gioiello tra identità, lusso e moderazione, atti della Giornata di Studi Internazionale (Padova, 11 febbraio 2019), Palermo 2020, pp. 29-42, particolarmente pp. 33-36.

[14] S. Buganza, La cappella della Beata Vergine in San Maurizio a Ponte in Valtellina: artisti e committenti, in “Arte Lombarda”, 198-199, 2023, pp. 70-95. Nella stessa rivista si veda anche, per una più ampia panoramica diacronica, E. Bianchi, La cappella della Beata Vergine in San Maurizio a Ponte in Valtellina: stato degli studi e novità sull’originario assetto decorativo, pp. 61-69.

[15] Rimando alla voce da me redatta per il Dizionario biografico degli Italiani, vol. 91, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2018, consultabile online all’indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/gottardo-scotti_(Dizionario-Biografico)/, con bibliografia precedente, da integrare con i molti documenti citati da S. Buganza, 2023.

[16] G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte de la pittura, scoltura et architettura, Milano, Gottardo Ponzio 1584, p. 101, poi in Idem, Scritti sulle arti, a cura di R. P. Ciardi, vol. 2, Pisa 1974, p. 366.

[17] Buganza, La cappella della Beata, cit., p. 82.

[18] Buganza, La cappella della Beata, cit., p. 79, sembra accettare in blocco anche attribuzioni non pertinenti, come la lunetta raffigurante il Compianto di Cristo già in Santa Marta a Monza e ora alla Pinacoteca dell’Accademia Carrara di Bergamo, e addirittura il tramezzo di Santa Maria delle Grazie a Bellinzona, citando disparata bibliografia senza troppe distinzioni, col risultato di dare l’impressione che tutti concordino su tali attribuzioni, rendendo in tal modo meno limpido il profilo del pittore.

[19] Per gli affreschi del sacello varallese si veda l’ampia bibliografia raccolta da S. Amerigo, E. De Filippis e C. Falcone, scheda n. 1, in Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, catalogo della mostra di Varallo, Vercelli e Novara, a cura di G. Agosti e J. Stoppa, Milano 2018, pp. 82-93; per il tramezzo bellinzonese il rinvio è a L. Calderari, Maestri e botteghe. Arte e architettura alle Grazie dalle origini al Settecento, in Santa Maria delle Grazie a Bellinzona. Storia e restauri, Bellinzona 2014, pp. 46-73, particolarmente le pp. 55-59 e note relative.

[20] Per il significato di “rebeschi” nel Trattato di Lomazzo rinvio a E. Villata, Gaudenzio Ferrari. Gli anni di apprendistato, in E. Villata e S. Baiocco, Gaudenzio Ferrari Gerolamo Giovenone. Un avvio e un percorso, Torino 2004, pp. 10-143, particolarmente le pp. 15-17 e note relative. L’interpretazione dei “rebeschi” come le grottesche colorate su fondo giallo in voga tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento è stata posta in discussione da M. Beltramini, Arabesco prima e dopo padre Resta, in “Quaderni di Memofonte”, 25, 2020, pp. 35-40, particolarmente le pp. 35-36, però su una base geografica (variante “padana” in contrapposizione alla dotta normalizzazione raffaellesca) che non finisce di convincermi. Il discorso, ancorché solo abbozzato, di Beltramini è comunque più articolato e meriterebbe uno specifico approfondimento da differenti punti di vista.

[21] Bianchi, La cappella della Beata, cit., pp. 64-67, e nella stessa rivista C. Cairati, Scultura picta in Valtellina (1490-1505 circa), pp. 96-116, particolarmente le pp. 112-116.

[22] L. Lanzi, Storia pittorica della Italia. Dal Risorgimento delle Belle Arti fin presso al fine del XVIII secolo, a cura di M. Capucci, II, S.P.E.S., Firenze 1970, p. 298.

[23] L. Lanzi, Il taccuino lombardo. Viaggio del 1793 specialmente pel milanese e pel parmigiano, mantovano e veronese, musei quivi veduti, pittori che vi son vissuti, a cura di P. Pastres, Forum, Udine 2000, p. 79.

[24] Citato in E. Villata, Gaudenzio Ferrari, in E. Villata e S. Baiocco, Gaudenzio Ferrari, cit., 2004, pp. 24, 84 nota 98.

[25] Lanzi, Il taccuino lombardo, cit., p. 91.

[26] Buganza, La cappella della Beata, cit., p. 82.

[27] Ibidem, p. 80.

[28] Ibidem, p. 81.

[29] E. Rossetti, Una questione di famiglie. Lo sviluppo dell’Osservanza francescana e l’aristocrazia milanese (1476-1516), in «Quaderni di storia religiosa», XVIII, 2011, Fratres de familia. Gli insediamenti dell’Osservanza minoritica nella penisola italiana, a cura di L. Pellegrini e G. M. Varanini, pp. 101-165, in part. 129-130. Di notevole interesse il documento estratto dal Fondo Sironi dell’Archivio di Stato di Milano da Buganza, Op. cit., p. 75: una sentenza datata 10 aprile 1505 a favore dei fratelli Giovanni Stefano e Giovanni Bernardino quali creditori del conte Ludovico Bergamini, il marito di Cecilia Gallerani, “occasione picturarum factarum per dictos fratres de Scottis seu eorum “. Da un lato esso ci rivela un altro prestigioso committente e sembra suggerire non l’esecuzione di una pala d’altare o la decorazione di una cappella, ma la realizzazione di pitture profane in cui è probabile che facessero bella mostra di sé dei “rebeschi” (Buganza propone la buona ipotesi di un coinvolgimento dei due fratelli nel cantiere decorativo del Palazzo Carmagnola, di cui sono recentemente riemersi alcuni frammenti). Dall’altro il documento sembra suggerire una certa abitudine al subappalto da parte dei due pittori, ciò che ben collimerebbe con quanto ho proposto a proposito della Crocifissione oggi a Brera.

[30] Buganza, La cappella della Beata, cit., p. 92.

Un sentito ringraziamento ad Andrea Bardelli per aver coraggiosamente (è il caso di dirlo) accolto questo saggio nella sua rivista online, e a Maria Grazia Albertini Ottolenghi, Marco Collareta, Bernardo Oderzo Gabrieli, Cecilia Ghibaudi, Emanuele Pellegrini, Paola Venturelli, Elena Miserotti e Vito Zani per la condivisione delle idee e i preziosi consigli di forma e di sostanza, e a Francesca Bormetti, Riccardo Marquis e Giovanni Valagussa per avermi fornito alcune delle foto qui pubblicate.

Abstract
The present contribution focuses in the first part on the fifteenth-century frescoes of Casa Piazzi, in Ponte in Valtellina, the subject of a recent monograph. In it, the frescoes are interpreted as dependent on the teaching of Vincenzo Foppa and, on the basis of the comparison with the wooden relief depicting the Ascent to Calvary of the Castello Sforzesco, but originally in Varese, dated around 1485. On this occasion, a different evaluation is proposed: the frescoes are a testimony to the success of Rogier van der Weyden in the Duchy of Milan, thanks also to Zanetto Bugatto who worked for a couple of years in his workshop. Following this different interpretation, the dating also changes, which is set around 1470.
The second part of the essay discusses the identification of the author of the frescoes of the Chapel of the Virgin in the Collegiate Church of Ponte with Giovanni Stefano Scotti, a painter active in Como, Milan and also documented in Ponte. This identification is opposed to the one in favor of the Master of Villa Pecco, with similar paths, but in the opinion of the author of this essay it does not seem to rest on more solid foundations. Indeed, the recognition of the same figurative language of the Master of Villa Pecco in the works of the painter Bartolomeo Benzi, long documented as a student and collaborator of Stefano Scotto, is a strong argument in favor of the identification of the latter with the same Master of Villa Pecco.

Giugno 2025

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