Uno stipo in ebano e avorio datato e firmato: interpretazione iconografica e storico-artistica

di Oreste Omar Petilli

Lo stipo in ebano e avorio in oggetto è menzionato come manufatto del XVII secolo dell’Italia settentrionale nel catalogo della Collezione Cagnola di Gazzada (VA) [Figure 1 A e B, nota 1].

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Figura 1 A e B. Interno e fronte esterno dello stipo, cm. 58 x 76 x 40), Gazzada (Va), Collezione Cagnola, inv. MO.012.

Di forma rettangolare, presenta sul fronte due ante che celano uno scarabattolo con cassetti disposti ai lati di un antello centrale a forma di edicola, con arco serrato da due colonne su alti plinti e sormontato da trabeazione con balaustrina. Questo apre, a sua volta, su un vano con cassettini inclusi in una sorta di stipetto amovibile, che estratto rivela sul fondo un “segreto” con quattro tiretti [Figura 2].

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Figura 2. Parte interna dello scarabattolo con i cassetti segreti e particolare dello stipetto “amovibile”.

Coperchio, fianchi e ante sono impiallacciati in legno d’ebano con filettature in avorio a formare riserve mistilinee (nota 2).
Ciò che contraddistingue il manufatto è l’interno, dove l’ebano scuro fa da sfondo al candore dell’avorio delle colonnine, tornite e incise, e delle placchette dei cassetti.
Queste ultime sono istoriate con episodi della “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso e precisi raffronti permettono d’individuarne con certezza la fonte iconografica nelle incisioni della prima ed epocale edizione illustrata del libro, stampata a Genova nel 1590 (nota 3).
Essa comprendeva venti stampe premesse ai Canti, incise da Agostino Carracci e Giacomo Franco su disegni eseguiti nel 1586 da Bernardo Castello (nota 4): una serie grafica che nei due secoli successivi fungerà da paradigma per gli artisti impegnati nella trasposizione pittorica del capolavoro Tassiano (nota 5).
Nella fila di cassetti, a sinistra, sono riprodotti gli episodi intitolati: “Carlo e Ubaldo sulla barca della Fortuna viaggiano verso le isole della Fortuna” [Figura 3]; “I soldati raccontano di essere stati liberati da Armida grazie a Rinaldo. Pietro l’Eremita prevede il futuro di Rinaldo”; “Rinaldo e Armida nel giardino incantato”; “Carlo e Ubaldo in viaggio alla ricerca di Rinaldo incontrano il mago di Ascalona”.

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Figura 3. La placchetta di un cassettino, a confronto con l’incisione originale tratta dalla “Gerusalemme liberata” di Tasso nell’edizione illustrata del 1590: Carlo e Ubaldo sulla barca della Fortuna viaggiano verso le isole della Fortuna”.

Sul lato opposto riconosciamo: “La processione dei cristiani al Monte Oliveto”; “Solimano a capo degli Arabi assalta Gerusalemme”; “Clorinda muore tra le braccia di Tancredi”; “Saraceno consegna la spada a Goffredo” [Figura 4].

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Figura 4. “Saraceno consegna la spada a Goffredo”, istoriato nella placchetta di un altro cassettino, ancora a confronto con la sua fonte iconografica.

Nell’anta centrale è parzialmente riprodotta la tavola: “Riammissione di Rinaldo al campo”, mentre lungo la base la celebre scena: “Erminia cura le ferite di Tancredi” [Figura 5].

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Figura 5. Particolare dei decori in avorio inciso della base e dei plinti nell’antello centrale: l’episodio qui riprodotto è: “Erminia cura le ferite di Tancredi”, a confronto con la stampa originale.

Nel cassetto centrale dello stipetto interno è raffigurato un cavaliere, immagine tratta dall’illustrazione: “Primo scontro a Gerusalemme”; nei tiretti laterali si alternano figure di animali e racemi vegetali; le colonnine sono incise con candelabre di gusto ancora tardo manieristico, come i plinti, decorati da due fauni per parte con cesti di frutta; le cornici lungo l’arco e la trabeazione presentano girali fogliacee e festoni.

Più che con manufatti dell’Italia settentrionale lo stipo Cagnola sembra condividere forme e modalità decorative con esemplari in ebano e avorio prodotti nel XVII secolo a Napoli, o ivi attribuiti (nota 6).
E’ sempre arduo collocare con certezza questo genere di arredi: infatti la storiografia artistica, anche recente (nota 7), non ha affrontato in maniera sistematica lo studio degli stipi Italiani, nelle diverse declinazioni regionali – se mai ve ne furono – e soprattutto in un arco cronologico più ampio del XVI e XVII secolo.
Tutto ciò ha indotto, nei contributi scientifici come nelle valutazioni più propriamente antiquariali, a ritenere gli stipi in ebano e avorio come un prodotto pressoché esclusivo dei primi decenni del XVII secolo.
Sono state individuate essenzialmente due tipologie e due centri: a Napoli e al Meridione, si sono riferiti gli stipi di dimensioni più importanti, caratterizzati da un fronte con impianto architettonico classico e ornati con placche in avorio istoriate; alla Lombardia, soggetta anch’essa al dominio spagnolo ma priva di una corte, si sono attribuiti monetieri di dimensioni più ridotte, privi di elementi plastici e architettonici, con placche raffiguranti, in modo spesso corsivo, personaggi, animali e racemi vegetali, cosi come compaiono ad esempio nei dipinti del bergamasco Evaristo Baschenis.
Nel caso del nostro, i riferimenti alla tipologia degli stipi napoletani sono molteplici: a partire dalla struttura architettonica classicheggiante, che si rinviene in diversi esemplari, come quelli del Museo della Ceramica Duca di Martina nella Villa Floridiana di Napoli (nota 8) e del Museo della Certosa di Napoli.
Anche il gusto di incidere le placchette con illustrazioni – ora mitologiche, storiche o bibliche – sembra un comune denominatore, come riscontrabile nello stipo di Burghley House a Stamford in Inghilterra (nota 9); o in quello esitato da Sotheby’s [Figura 6, nota 10], già in collezione Castiglioni a Vienna, con cui addirittura lo stipo Cagnola condivide medesimo tema e fonte iconografica, ma se ne risulta superiore per virtuosismo di tratto.

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Figura 6: Stipo napoletano, Sotheby’s, Londra, 2012.

Ma le affinità più stringenti sono riscontrabili con uno stipo custodito presso il Museo Correale di Terranova a Sorrento [Figura 7], pubblicato genericamente come di artefice meridionale del XVII secolo da Edi Baccheschi (nota 11) e napoletano della fine del XVI secolo nel catalogo museale (nota 12).

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Figura 7. Lo stipo napoletano al Museo Correale di Terranova a Sorrento (Na) aperto e veduta frontale dello stesso.

Entrambi hanno l’antello centrale in forma di edicola architettonica sormontata da balaustrina, e presentano un simile impianto decorativo nei cassetti in avorio istoriato e incorniciato d’ebano, differenziandosi solo per le dimensioni e l’anta a ribalta.
Rispetto alla prima catalogazione del mobile (vedi ancora nota 1), nell’attuale fase di studio sono inoltre emersi due dati significativi, che rendono il manufatto in Villa Cagnola di grande interesse. Lungo i bordi di un tiretto dello stipetto interno “amovibile” compaiono infatti due iscrizioni: una data, interpretabile come 1763, e una firma, solo in parte decifrabile: F. Vincenzo Ferr.. (Ferreri ?) [Figura 8].

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Figura 8. Dettaglio dello stipo di Figura 1: cassettino recante la firma e la data, insieme e particolari.

Se si considera l’anno inscritto come quello di realizzazione, dovremmo dedurre che la produzione di stipi in ebano e avorio si sia prolungata sino al XVIII secolo inoltrato.
Decifrato solo parzialmente, il nome non è stato per il momento ricondotto ad alcun personaggio ne’ come possibile committente, né come artefice. Mi pare tuttavia degna di riflessione la lettera effe puntata: una tale forma compare nella grafia antica come nei caratteri a stampa sei e settecenteschi per indicare il titolo di Frate, seguito da nome proprio e toponimo, o qualche rara volta cognome.
Interpretando la firma come quella di uno sconosciuto frate ebanista (nota 13), si può ipotizzare la realizzazione dello stipo e la scelta stessa di un tema ornamentale letterario-cristiano ad opera di un qualche laboratorio conventuale, in Napoli o dintorni, forse proprio per una committenza religiosa (nota 14), e così giustificare con il conservatorismo tipico di questi ambienti la richiesta di un mobile aulico e prezioso ma al di fuori delle mode (nota 15).
Pur con cautela, non si può quindi escludere, nel caso dello stipo Cagnola, che ci si trovi di fronte a una produzione tarda (nota 16), e forse rara, magari non scevra dal riutilizzo di materiale più antico, ancora seicentesco.
Quanto sin qui proposto è un’ipotesi, e tale rimane fino a quando non emergeranno nuovi documenti, firme di artefici e date inerenti gli stipi, cosi da poter meglio definire i termini cronologici e circoscrivere gli ambiti di produzione in Italia di questo prezioso genere di arredi.

NOTE

[1] Orsi F., Mobili e arredi in A.A.VV., La Collezione Cagnola. Le arti decorative, Busto Arsizio, 1999, p. 131, Figure 12 a e b.

[2] Lo stipo si presenta in discrete condizioni, fatta eccezione per alcuni distacchi dell’impiallacciatura su fianchi e coperchio. Sono sostituzioni, probabilmente tardo ottocentesche, le serrature e le cerniere delle ante, e i piedi a sfera. Il cassettino destro lungo la base sembra essere stato unito, in epoca imprecisabile, con quello a lato nascosto dai plinti, così da formarne uno più grande. La struttura dello stipo è prevalentemente in abete con alcune parti in pioppo nei cassetti. Dall’analisi del materiale fotografico (si ringrazia il dott. Russo), sembra che sia di abete anche lo stipo del Museo Correale a Sorrento, con cui il nostro presenta forti similitudini. Sull’uso di abete, a volte combinato con pioppo, nella mobilia del XVIII secolo in Campania, si veda: A. Putaturo Murano, Il Mobile Napoletano del Settecento, Napoli, 1977, pp. 57-94.

[3] Torquato Tasso, La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso con le figure di Bernardo Castello e le annotazioni di Scipio Gentili e di Giulio Guastavini, in Genova, MDCLXXXX.

[4] Illustrare il capolavoro tassiano fu per il pittore genovese Bernardo Castello (1557-1629) un’impresa importante, di cui ebbe l’approvazione dell’autore stesso e il plauso dei contemporanei. Si veda a questo proposito: L. Bolzoni, C. A. Girotto (a cura di), Donne Cavalieri Incanti Follia. Viaggio attraverso le immagini dell’Orlando Furioso, Catalogo della mostra, Lucca, 2013, pp. 66-67.

[5] V. Lotoro, La Fortuna della Gerusalemme liberata nella pittura napoletana tra Seicento e Settecento, Ariccia, 2008.

[6] Una disamina degli stipi in ebano e avorio su evidenze documentali e stilistiche è stata compiuta da Alvar Gonzales Palacios, il quale ha preso in esame quella che potremmo definire la golden age di questa tipologia d’arredo, tra fine XVI e il primo quarto del XVII secolo a Napoli e ad opera di ebanisti e incisori tedeschi e locali. Si veda in proposito: A. González-Palacios, “Giovanni Battista De Curtis, Jacobo Fiamengo e lo stipo manierista napoletano”, in Antologia di Belle Arti, II, 1978, n. 6, pp. 136-148; ripreso poi in: A. Gonzales Palacios, Il Tempio del Gusto. Le arti decorative in Italia fra classicismi e barocco, Milano, 1984, pp. 239-247.

[7] Questa incertezza attributiva si riflette, per esempio, nella complessa catalogazione della collezione di stipi del Castello Sforzesco di Milano: E. Colle, Museo d’Arti applicate. Mobili e intagli lignei, Milano, 1998, pp. 176-219.

[8] Museo Villa Floridiana, Napoli, Inv. 1054.

[9] Burghley House Collections, Stamford, ref. FUR0307b.

[10] Sotheby’s, Arts of Europe, Londra, 3 luglio 2012, lotto n 4.

[11] E. Baccheschi (a cura di), Mobili italiani del meridione, Milano, 1966, p. 20.

[12] R. Cariello (a cura di), Il Museo Correale di Terranova, Sorrento, 2004, pp. 86-88; inv. 2262.

[13] Sulla presenza in Italia meridionale di frati ebanisti e intagliatori attivi nel XVIII secolo si veda: A. Perriccioli, L’arte del legno in Irpinia, Napoli, 1975; L. Del Vecchio, Fratelli marangoni e tabernacoli lignei. Un capitolo di storia cappuccina in Abruzzo, Lanciano, 2001; E. Colle, Il mobile rococo’ in Italia, Milano, 2003, pag. 28.

[14] Per l’intensa committenza religiosa in Napoli nel XVIII secolo, si veda: A. Putaturo Murano, Op. cit., pp. 15-18.

[15] Per la persistenza di stilemi seicenteschi ancora in epoca rococò e addirittura neoclassica nel Regno di Napoli, soprattutto in provincia e presso gruppi conservatori del clero e della nobiltà, come reazione al riformismo regio, si veda: A. Putaturo Murano, Op. cit., pp. 34-35.

[16] Pubblicazioni recenti di arredi Italiani datati confortano l’ipotesi di cosiddetti mobili “ritardatari”, con forme, decori e tipologie che rimandano a un gusto già “superato”, ma in alcuni ambiti socio-culturali ancora portatori di significato.

Prima pubblicazione: Antiqua.mi, dicembre 2015

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